Il Messaggero, 9 novembre 2015
"Se questa è la giovinezza vorrei che passasse presto. 1926-1940" di Alberto Moravia (Bompiani): una raccolta illuminante di lettere intime e personali, prive di retorica
Poco più che adolescente, confessa dubbi, progressi, fallimenti in una vita ricca e tormentata: «Voglio finire il romanzo prima dell’anno ma credo che non ci riuscirò perché dopo averlo finito, mi toccherà trasformare la prima parte»; «l’ispirazione è come un raccolto minacciato da mille guai che bisogna mietere». Vuole vivere e scrivere, ha «furioso desiderio di fare qualche pazzia», di imparare «non solo dai libri». Per esperienza maturata però sui libri, sa già che l’amour comme toute autre chose de cette vie n’est rien moins tragique. Lettere d’amicizia e di viaggio, lettere d’amore e di crescita intellettuale, quasi un racconto in tempo reale del percorso di formazione di un grande scrittore. Sono le 154 lettere di Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto 1926 – 1940, (Bompiani), un epistolario che illumina la biografia del primo Moravia con documenti essenziali e materiale davvero insostituibile. Per parlare del proprio lavoro letterario, di viaggi, di libri, di pene d’amore, molti sono gli interlocutori, Morra, Alberti, la pittrice svizzera Lélo Fiaux, Berenson, il critico Pancrazi cui Moravia si rivolge per ottenere una collaborazione al “Corriere della Sera” in vista del matrimonio, poi sfumato, con Silvia Piccolomini. E ancora Chiaromonte, Prezzolini, Pannunzio, Terra. «Sono un cattivo epistolografo e non ammetto di far per lettera quelle confidenze che non farei a voce», scrive a Morra che, per lui, è una guida intellettuale e umana cui affida tra l’altro le considerazioni sugli Indifferenti all’indomani della pubblicazione e la frustrazione e la ricerca legate a Le ambizioni sbagliate, tra dubbi, laceranti afasie correzioni e continue limature. Ma non si può che essere d’accordo con Alessandra Grandelis che ha curato l’epistolario: quelle di Moravia sono lettere “vere”, di una verità intima e personale, non hanno alcuna progettualità retorica per lasciare un’immagine di sé filtrata dalla letteratura. La “verità” di chi così apre il suo animo ad Andrea Caffi, l’undici luglio 1927: «La più grande precarietà è in ogni mia azione, vivo alla giornata, è terribile non aver alcun appetito, non essere feroce e certo nulla è più ripugnante di certe mie debolezze femminili, direi quasi masochistiche».