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 2015  novembre 08 Domenica calendario

Un primo violino italiano, un primo flauto olandese, un primo clarinetto russo e una prima viola francese. È con i migranti europei che si fecero le grandi orchestre made in Usa

Proprio nei giorni scorsi, un mio cugino mi ha chiesto: ma che differenza c’è tra orchestra Sinfonica e Filarmonica? La risposta è semplice: nessuna. Sono esattamente la stessa cosa. Al di là del nome, la sostanza musicale non cambia. In America ci sono anche delle formazioni che non si chiamano né Sinfoniche né Filarmoniche, ma semplicemente orchestre: Cleveland Orchestra, Philadelphia Orchestra. 
Il fatto invece importante, da un punto di vista storico e non onomastico, è che anche in Europa (pensiamo ad esempio a Vienna) le compagini sinfoniche stabili non esistettero fino alla metà dell’Ottocento. E con una simbolica sincronia, tra Europa e America, nacquero negli stessi anni. 1842 è la data di nascita della Filarmonica di Vienna e della Filarmonica di New York. Il motivo che spiega questa onda lunga, ad accomunare gli esordi delle più importanti squadre di qui e di là dell’Oceano, è linguistico: la lingua inglese non è una tra le lingue principali dell’opera lirica. Bisognerà attendere il 1883 perché nasca a New York il primo grande teatro stabile, il Metropolitan. Esistevano, prima di allora, dei complessi teatrali minori (a partire dalla New York Opera Company, fondata nel 1833 da Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart), ma avevano vita breve, erano destinati quasi subito al fallimento. Bisognerà attendere le grandi migrazioni dall’Europa della seconda metà dell’Ottocento per creare un appetito forte nei confronti dell’opera.
Senza ostacoli linguistici, la musica sinfonica qui in America attecchì invece con immediata facilità. E crebbe subito con radici robuste, anche perché i direttori e gli strumentisti delle nuove orchestre venivano per lo più dall’Europa. Magari all’inizio facevano anche altri mestieri, come principale professione, però sapevano suonare uno strumento e così in breve trovavano lavoro. Basta uno sguardo ai nomi dei primi protagonisti delle “Big Five”, le cinque più famose d’America, per incontrare ad esempio, George Henschel, che fu il primo direttore della Boston Symphony Orchestra: un tedesco, cantante e pianista, che era stato molto amico di Brahms. A lui fece seguito Arthur Nikisch, che era ungherese, ma tedesco di formazione: uno dei più grandi direttori della storia. 
A New York, invece, dove a un certo punto si formarono due orchestre, rivali tra loro, Leopold Damrosch, direttore e violinista tedesco, guidava la New York Symphony, mentre la New York Philharmonic aveva Anton Seidl, discepolo di Wagner, e poi Mahler, che fu direttore stabile dal 1909 al 1911. Diresse proprio qui il suo ultimo concerto, prima di ritornare in Europa e morire. A Chicago, il fondatore, nel 1890, si chiamava Thomas Thomas, ed era un emigrato tedesco, che ebbe poi una grande influenza sulle altre orchestre americane. Allora queste nuove formazioni viaggiavano molto, per monti e pianure, attraversavano cittadine sperdute dove c’era poca cultura musicale. E loro suonavano Beethoven!
Il primo direttore stabile di una tra le maggiori orchestre americane, americano di nascita, fu Leonard Bernstein. Guidò la New York Philharmonic dal 1958. E questo “miscuglio” di passaporti non riguardava solamente i direttori, ma anche i musicisti: al Metropolitan, ad esempio, la lingua più diffusa tra i leggii in buca era il tedesco. E quando Toscanini, nel 1930, portò per la prima volta la Filarmonica di New York in Europa, il pubblico ebbe uno shock. Perché credevano di ascoltare dei provinciali, invece suonavano meglio di loro. Ma come si chiamavano? Toscanini fece l’appello: il primo violino si chiamava Scipione Guidi, il primo violoncello Alfred Wallenstein (discendente del condottiero), il primo oboe Bruno Labate, il primo flauto era olandese, il primo clarinetto russo, la prima viola francese, il primo corno tedesco, Bruno Jänicke, grandissimo.
A rendere competitive le squadre americane era il fatto di non aver bisogno di suonare in teatri: erano orchestre sinfoniche e basta. E avevano un direttore stabile. Suonavano per un massimo di ventiquattro settimane all’anno, ed erano pagate solo per quelle, dunque i musicisti dovevano poi anche insegnare, per cui hanno creato una grande “scuola americana” di strumentisti. Ma soprattutto a caratterizzarle era lo esprit de corps, l’orgoglio civico: dove c’era una buona orchestra si costruivano anche delle belle sale (come la Carnegie Hall o la Symphony Hall, a Boston). Già allora, come oggi, le orchestre non godevano di sovvenzioni pubbliche, ma dovevano mantenersi coi biglietti e con donazioni. Ma c’era questa “colla”, che ancora adesso tiene unite le orchestre americane: una fierezza di essere musicisti, di suonare insieme, che fa sì che non si scenda mai al di sotto di un certo livello qualitativo. Qualsiasi sia il direttore sul podio.
E anche se siamo in un periodo di crisi, gli stipendi degli orchestrali americani rimangono competitivi. Ad esempio, leggevo l’altro giorno che i compensi a Philadelphia (che pure è un’orchestra in difficoltà oggi) per uno strumentista a inizio carriera, per un posto di seconda fila (un secondo violino, diciamo) ammontano a 140mila dollari lordi annui. Che non sono male. Tenendo conto che poi aumentano con l’anzianità e il grado. Certo, un fatto che oggi colpisce nelle orchestre americane è la forte presenza di orientali: già ai tempi di Karajan c’erano tra i Berliner sette o otto giapponesi. Ora sono moltissimi i cinesi e i coreani: il primo oboe della New York Philharmonic è cinese, la spalla di Chicago pure… Vincono loro i concorsi perché sono più disciplinati. Noi lo siamo di meno. Forse perché i genitori non picchiano più: e non è una battuta. Diceva George Solti, grande direttore (nato a Budapest) della Chicago Symphony: «Chi ama studiare uno strumento per molte ore di seguito? O un genio o un imbecille». Non certo un ragazzo normale.