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 2015  novembre 09 Lunedì calendario

Tutte le gaffe di Rossella Orlandi, la direttrice del Fisco. Già renziana doc, adesso rischia di essere rottamata anzitempo

Il curriculum è da renziana doc. Rossella Orlandi è nata in Toscana (Empoli), si è laureata in legge a Firenze, fino al 2006 ha lavorato come capo ufficio controlli fiscali nella regione: e sappiamo che essere conterranei di Matteo Renzi significa carriera sicura. È una donna, altra carta vincente nell’epoca delle quote rosa. Alla Leopolda dell’anno scorso, Renzi l’aveva esibita – con il pm anticorruzione Raffaele Cantone – come un fiore all’occhiello.
Eppure la direttrice dell’Agenzia delle entrate rischia di fare la fine di Ignazio Marino: rottamata prima del tempo. Che ha fatto Lady Tasse a Matteo Renzi? Gli ha mandato un accertamento farlocco? L’ha beccato con un rotolo di banconote legate con l’elastico? Ha messo le ganasce alla Volkswagen della moglie Agnese sulle corsie preferenziali? Peggio, molto peggio. Si è macchiata del reato più grave agli occhi del premier, quello di lesa maestà. È rimasta troppo legata alla vecchia gestione, ai Visco boys (lei che è sempre stata una Visco girl), all’idea che il contante vada cancellato e la macchina del fisco sia un moloch del terrore.
Renzi non cerca più i voti della sinistra dura e pura. Alle elezioni ha bisogno di dare la caccia ai grandi numeri. Secondo lui la lotta all’evasione fiscale non fa guadagnare consenso, soprattutto al Sud. Dunque, meglio cambiare registro, fare capire agli italiani che la morsa si allenta, che si può fare il pieno di contanti, che le tasse non sono più bellissime come ai tempi di Romano Prodi premier. Invece proprio in quel periodo il ministro Vincenzo «Dracula» Visco chiamò la Orlandi da Firenze a Roma. Lei appartiene alla scuola draconiana, quella delle ganasce, dei pignoramenti, del redditometro, dei controlli a tappeto. Perché le partite Iva sono una manica di evasori fiscali.
Ma dietro lo scontro tra Renzi e la Orlandi sull’uso del contante si cela anche quello che non manca mai nella politica romana, cioè lotte di potere nascoste quanto spietate. Il primo terreno di scontro è su Equitalia, l’ente che deve riscuotere le cartelle esattoriali. Oggi l’Agenzia esegue i controlli, dispone quanto incassare e gestisce i contenziosi. E già così mette paura. Se avesse anche il potere di decidere i mezzi di esazione, il contribuente si troverebbe di fronte a un ministero parallelo, una piovra dalla quale sarebbe impossibile divincolarsi.
Naturalmente il premier è favorevole all’ipotesi opposta, cioè portare Equitalia sotto il controllo del governo, e da mesi manda avanti il sottosegretario Enrico Zanetti, che è un ex commercialista dal dente avvelenato (oltre che leader di Scelta civica), per tagliare le ali alla Orlandi. Il conflitto è esploso nelle scorse settimane, con accuse incrociate e richieste di dimissioni rientrate a fatica. Ecco lo spettacolo: il braccio armato delle Finanze, la Orlandi, che attacca il governo; il sottosegretario alle Finanze, Zanetti, che preme perché se ne vada; il ministro, Padoan, che non difende il proprio vice ma la dirigente dell’Agenzia. È la fotografia di un caos.
In questo scombussolamento si inserisce la rissa sulle nomine rinviate per mesi, e il destino di 767 dirigenti dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale perché promossi senza concorso e quindi retrocessi a funzionari, con la busta paga ghigliottinata di duemila euro in media al mese. Rossella Orlandi li difende come fosse una sindacalista, non la loro dirigente. Renzi invece risparmierebbe volentieri quella fetta di stipendi, con il risultato che una decina di papaveri del fisco sono passati alla concorrenza, cioè a importanti studi legali.
In questa intricata partita si è sovrapposta la fuga dei vertici delle Entrate che non hanno digerito la nomina del nuovo direttore, giunta dopo un braccio di ferro seguito all’uscita di Attilio Befera, approdato all’Eni. Renzi avrebbe voluto il pm Francesco Greco mentre Padoan caldeggiava il numero 2 delle Entrate, Marco Di Capua, capo degli accertamenti. Tra i due litiganti ha goduto la Orlandi. Così Di Capua ora sta a Finmeccanica come responsabile audit (controlli interni) e ha portato con sé il numero 3 dell’Agenzia, Salvatore Lampone, che da direttore audit e sicurezza delle Entrate è diventato responsabile del risk management nella holding guidata da Mauro Moretti.
Rossella Orlandi ha dunque dato l’allarme. «L’Agenzia è rimasta in piedi solo per la dignità delle persone che vi lavorano», ha detto: non per l’interessamento di Renzi, che non c’è stato. «Dalla contrattazione è scomparso il comparto delle agenzie fiscali e questo determina la morte delle agenzie», è stato il necrologio firmato dal capo delle Entrate. Zanetti non gliele ha mandate a dire: «Mi sentirei più tranquillo se alla guida dell’Agenzia non ci fosse qualcuno pronto a fare in pubblico il gioco del l’avevo detto io». A quel punto Renzi e Padoan hanno imposto una tregua armata.
Ma la direttrice dell’Agenzia non rientrerà nei ranghi. Ha cominciato a scalare i gradini con il primo (e unico) concorso nel 1999. Nel 2007 era alla direzione centrale accertamento. I metodi di allora erano empirici, lei li definiva «normale osservazione della realtà che ci circonda»: spulciare gli annunci immobiliari di vendita e affitto, controllare alla Motorizzazione le proprietà delle auto di lusso, prendere i dati delle barche all’attracco nei porti per incrociarli con i redditi dei proprietari o le bollette di luce e gas. L’obiettivo non erano i grandi evasori ma i piccoli: proprietari di case e supercar, studenti fuorisede, artigiani, partite Iva. Nel mirino sono finiti pure gli italiani all’estero, Vip compresi, sospettati di voler vivere (o fingere di farlo) in un paradiso non geografico ma fiscale.
Da direttore aggiunto dell’accertamento, Rossella Orlandi è stata pure la madrina del nuovo redditometro: niente moduli da compilare ma verifica automatica delle spese che, se incongrue con il reddito dichiarato, fanno scattare l’accertamento. Anche se Nostra Signora delle Tasse tentò (invano) di far passare l’idea che non si trattava del «Grande Fratello fiscale», il messaggio ai contribuenti era chiaro.
Commise un’altra gaffe quando, poco dopo la nomina a direttore dell’Agenzia, disse che in Italia si evadeva molto perché «siamo un Paese a forte matrice cattolica, abituato a fare peccato e ad avere l’assoluzione», salvo innestare la retromarcia dopo la reprimenda di Avvenire. E in una delle sue prime circolari compì un’altra giravolta, rinnegando la lotta ai piccoli evasori per concentrarsi sui grandi. Basta contestazioni puramente formali o mini accertamenti che costano tanto e spremono poco, ma priorità ai casi secondo criteri di «proporzionalità» e «proficuità», fari puntati sui «comportamenti evasivi più gravi», quelli che «oltre ad avere un impatto rilevante sul gettito erariale, provocano distorsioni alla libera concorrenza». L’ultima piroetta, cioè il balletto con Zanetti, potrebbe esserle fatale.