il Giornale, 9 novembre 2015
Le «Otto Regole» aziendali, le strategie commerciali, la passione per lo sport. Intervista a Peter Thun, il re delle ceramiche
È il re dei cieli. Quelli abitati da angeli fiabeschi, dalla boccuccia aperta e occhi sognanti. È Peter Thun, presidente dell’omonima azienda. Nato a Innsbruck, 60 anni fa, è cresciuto a Bolzano dove – nel 1978 – rilevò l’azienda dei genitori, i conti Lene e Otmar. La Thun ora ha 1187 punti vendita, di cui 318 monomarca, annualmente produce 10 milioni di pezzi e ha un fatturato di 81 milioni. Peter Thun, altoatesino, è uomo di fatti e parole nette. Per meglio chiarirle, non esita a metterle nero su bianco. Il caso delle «Otto Regole» cui attenersi se si lavora in azienda: dare il meglio di sé, puntare al successo, essere orientati al cliente, aver rispetto degli altri, innovare nella tradizione. Ma regola numero uno, via i musi lunghi, bisogna portare gioia.
La gioia di vivere è il motto aziendale. Lei come persegue questo obiettivo?
«Credo che la società sia divisa in tre categorie. Si parte da chi non si pone obiettivi e che, dunque, non penso possa avere grandi momenti di gioia. C’è poi chi si ostina a puntare all’impossibile, dunque vive in uno stato di perenne frustrazione. Io appartengo a quanti si pongono mete ambiziose, magari leggermente fuori portata, ma conseguibili. Quando raggiungiamo i nostri obiettivi, proviamo gioia».
Non mi dica che riesce sempre a rispettare le otto regole…
«Non passa giorno che non riprenda in mano il biglietto dove le ho annotate. Da noi si dice che il pesce puzza dalla testa. O si vive in prima persona queste norme o tutto rimane sterile. Forse sono valori che nella loro pienezza non si raggiungeranno mai, però sono parametri a cui tendere. Erano nel subconscio da quando ho rilevato l’azienda, poi via via sono andati definendosi».
In casa Thun volete che si coltivi – leggo – «un equilibrio tale da poter lavorare e vivere al meglio delle proprie possibilità». Sembra fantascienza…
«O forse è solo una meta ambiziosa e in quanto tale richiede impegno. Bisogna lavorarci. Per sviluppare questo aspetto, in Thun è prevista una formazione in ingresso e poi continua. Devono poi essere chiare le tre colonne della salute: movimento, alimentazione e spirito. Io stesso le seguo. Se non abbiamo un equilibrio interno è difficile essere pienamente efficienti. Questi corsi e regole non sono un dovere, ma un’opportunità».
E così vengono percepiti?
«Al primo e secondo livello gerarchico aziendale i corsi vanno seguiti obbligatoriamente, poi è a discrezione del singolo. Tuttavia il 90% dei dipendenti partecipa ai corsi».
Regole, corsi, strategie rifinite al millimetro. Approccio anglosassone?
«Sì per quanto riguarda l’idea di funzionalità e il pragmatismo. Per il resto, hanno influito i 25 anni di presenza in Asia e il continuo confronto con la cultura orientale».
La Cina di oggi è ben diversa rispetto a quella in cui vi siete imbattuti 25 anni fa. Come affrontate la crisi d’Oriente?
«Da sette anni i costi della manodopera cinese sono esplosi, negli ultimi cinque anni praticamente raddoppiati. Per questo ci siamo trasferiti in Vietnam e Thailandia dove, in quattro anni, abbiamo raccolto risultati sorprendenti. Il management è ormai pressoché locale, i costi di produzione sono sostenibili. In Cina stiamo terminando le ultime attività».
Cina non più concorrenziale, insomma…
«E ci si aspetta che tra un po’ non lo saranno più nemmeno i suoi Paesi satelliti. Stiamo infatti valutando fabbriche in Cambogia. Il Vietnam vive una straordinaria crescita, quindi è meglio prepararsi. La Cina sta tentando di ritrovare un equilibrio, ma non sarà facile, e richiederà tempi lunghi».
La recente inchiesta su Amazon ha messo a nudo modalità di lavoro al limite della sostenibilità.
«Noi vogliamo che i dipendenti stiano bene. Oggi raggiungere gli obiettivi è più difficile di un tempo. Ma proprio per questo ha senso concentrarsi ancora di più sulla cura della persona e dell’ambiente in cui opera. C’è uno stress positivo e uno negativo, va trovato il giusto equilibrio. Bisogna capire quali sono le abilità del singolo e ottimizzarle».
E se il dipendente fallisce?
«Se non riesce a ottenere risultati entro un certo periodo, dico con schiettezza che ci dobbiamo lasciare. La chiusura di un rapporto non deve essere un tabù».
Dicono che lei viaggi nei negozi in incognito per verificare di persona se tutto procede come dovrebbe…
«Stamani sono stato nei punti vendita di Brescia e Verona. Faccio ciò regolarmente».
Soddisfatto di quello che ha visto?
«In generale sono molto soddisfatto dei negozi che conduciamo noi direttamente, i commessi sono eccezionali. Non posso sempre dire altrettanto dei negozi affiliati, alcuni credono di delegare tutte le responsabilità a un marchio. Senza indole creativa imprenditoriale non si va da nessuna parte. E lo dimostra il fatto che a parità di problemi nazionali, internazionali eccetera, i nostri negozi hanno registrato un più 18% e gli altri solo il 4%».
Come sono cambiate le abitudini di consumo degli ultimi anni?
«Abbiamo una media di 200mila visite al mese. Tuttavia la crescita di fatturato non è proporzionale all’aumento dei tassi di visita. C’è molta prudenza nell’acquisto, del resto prodotti assolutamente non necessari, l’80% della nostra clientela è costituita da collezionisti».
Lei è altoatesino fino all’ultima fibra anche nell’approccio alla professione. Corretto?
«Credo di sì. Qui a Bolzano si guarda molto al mondo anglosassone. Faccio un esempio. Nel dopoguerra, il tedesco si rimboccò subito le maniche. L’italiano, pur dotato di una creatività invidiata dal tedesco, e senza gli enormi danni avuti dal tedesco, non ha raggiunto la solidità della Germania».
Morale?
«Puoi avere tutto il talento che vuoi, ma se non viene incanalato, se non si procede ad analisi e a strategie orientate a obiettivi misurabili, tutto si disperde. La sola creatività non produce crescita. La sistematicità nel pensare le cose aiuta, aiuta anche a compensare una creatività minore. E poi ci vuole massima dedizione e rispetto del prossimo. In Germania si è votata Angela Merkel e la si lascia lavorare. In Italia, ogni primo ministro viene messo sotto processo, si ridiscutono le regole».
A che punto è il dialogo fra italiani e tedeschi a Bolzano?
«Abbiamo bisogno di un ulteriore cambio generazionale perché questo rapporto sia naturale. È un processo lungo. A mia madre venne cambiato il nome, dal tedesco all’italiano. Io sono stato battezzato Peter e tale sono rimasto, quindi è stato fatto un passo in avanti. Ora mio figlio si chiede perché si discuta di questo: forse il processo si sta completando, ma ci vuole ancora del tempo».
Vero che alcuni marchi bolzanini stanno facendo rete per meglio fronteggiare il mercato?
«Siamo in quattro, noi, Salewa, Dr Schar e Loacker. È un progetto di network, ci incontriamo per pianificare azioni e strategie comuni. Ci conosciamo tutti da una vita, abbiamo più o meno la stessa età. Però l’imprenditore è una brutta bestia, prima che diventi un libro aperto, come richiederebbe questa operazione, ce ne vuole».
È un inguaribile sportivo. Vero?
«Ho praticato sci, moto, macchina, deltaplano, classificandomi anche in campionati. Lo sport ti porta a lottare con te stesso, a dare il meglio di te e a puntare al successo».
Non solo lavoro, insomma.
«Chi non ha il giusto distacco dal proprio lavoro perde l’obiettivita e puo incappare in errori. E poi fisico e mente hanno bisogno di rigenerarsi. Giornate con 14 ore di lavoro devono essere un’eccezione, alla lunga non sono produttive».
Tecnicamente lei è conte. Nella realtà?
«Ho ereditato questo titolo, ma non credo nei titoli come punti di forza. La forza si esprime attraverso i fatti».
Ha ereditato solo il titolo?
«Appartengo a quel ceppo che durante le guerre perse tutto».
I legami fra i Thun sono comunque vivi?
«Siamo in 228 maschi Thun, cerchiamo di mantenere i contatti di una famiglia che conta mille anni di storia. Il Castello Thun, vicino a Mezzolombardo, prima che morisse zia Teresina era il nostro punto di ritrovo. Il mio ceppo è stato lì fino al 1604, poi passò in Boemia».