Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 09 Lunedì calendario

La triste odissea dei cuccioli di razza: dai Paesi dell’Est, strappati alla madre prima di completare lo svezzamento e stipati sui furgoni senza acqua né cibo, arrivano in Italia con documenti falsi e senza garanzie sanitarie. Quelli che sopravvivono sono venduti per cifre comprese tra i 700 e i 1.200 euro

Questa storia comincia in un cortile in Ungheria e finisce sui divani degli appartamenti qui da noi. O nelle cucce in giardino delle nostre villette. Una grossa fetta dei 31,8 milioni di italiani che secondo il rapporto Eurispes 2014 possiedono un cane non ne conosce la vera provenienza: non sa che quel cucciolo di razza acquistato in negozio, che ora scorrazza felice in corridoio, potrebbe essere tra i pochi fortunati cui è andata bene. Non sempre, però, la storia è lieta. Spesso, invece, alla sua origine c’è una tratta clandestina, e organizzazioni criminali create ad hoc per gestirla e trarne profitto.
Il Corpo forestale dello Stato ha denunciato più volte il fenomeno negli ultimi anni: dall’inizio della grande crisi per gli allevatori dei Paesi dell’Est è diventato più conveniente buttarsi sui cani di razza che sulle vacche da latte. Così, in Ungheria, Romania, Polonia, Slovacchia parecchi hanno investito in una o due femmine «fattrici» e in un maschio «riproduttore» di razza pura. A volte senza neanche essere professionisti, ma solo ingolositi da un business in cui la spesa iniziale è contenuta, perché per i cani non serve una grande struttura. Il guadagno, insomma, è facile, il rischio basso. Basta scegliere razze piccole – chihuahua, bassotti, yorkshire – e cominciare la «produzione in serie» anche in un appartamento, obbligando la femmina ad almeno un paio di gravidanze all’anno. «Ogni cucciolo sarà ceduto a un prezzo tra i 20 e i 50 euro, ma al consumatore finale costerà tra i 700 e 1.200 euro», racconta Ciro Troiano, criminologo e responsabile dell’Osservatorio nazionale zoomafia della Lav, la Lega antivivisezione.
Nei casi più organizzati, i cagnolini vengono strappati alla madre prima di completare lo svezzamento, ad appena 25-30 giorni dalla nascita. Poco importa che in Italia commerciarli prima dei 70 giorni di vita sia illegale: nei diversi Paesi non esiste una normativa uniforme sul punto, e questo, spiega l’avvocato Claudia Ricci, legale dell’Ente nazionale protezione animali, «rende difficile un intervento, per esempio con Eurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria europea». Veterinari conniventi, dietro pagamento, preparano documenti falsi che attestano le avvenute vaccinazioni (come l’antirabbica, obbligatoria) senza effettuare una seria profilassi. Lo stesso vale per i pedigree, «grazie ai quali i cani risulteranno provenienti da allevamenti italiani», fa notare Troiano. A volte va persino peggio, con i cuccioli barbaramente sottratti alla madre dopo dieci giorni dal parto, e caricati direttamente sui furgoni senza documenti per l’importazione e vaccinazioni. I controlli di carabinieri e polizia lungo le autostrade attorno alle città di confine con Austria e Slovenia offrono un’ampia, triste casistica.
VIAGGIO DA INCUBO
Gli animali vengono stipati senza cibo né acqua in gabbie piccolissime, destinate a sporcarsi di feci e urina perché da lì i piccoli non usciranno mai nel loro viaggio verso lo Stivale. In queste condizioni i carabinieri hanno scoperto, il 18 dicembre scorso, 36 cuccioli trasportati su un Suv con targa polacca nei pressi dello svincolo autostradale di Tarvisio Nord, il primo all’ingresso dall’Austria. Alla guida c’era un italiano con precedenti analoghi, accompagnato da una donna di cittadinanza polacca. Tre giorni dopo la polizia stradale ha beccato nei pressi di Rovigo un autocarro con trenta cagnolini provenienti da allevamenti ungheresi. E sempre a dicembre 2014 un furgone con targa slovacca diretto a Frattamaggiore, nel napoletano, è stato fermato con un carico di 51 cuccioli di cane di varie razze, tutti tra i due e i tre mesi. Alla guida si davano il cambio due polacchi. Altri 14 cuccioli di cane e tre di gatto erano su una vettura targata San Marino, proveniente dalla Slovenia, scoperta e sequestrata a febbraio 2014 dai carabinieri di Monfalcone, all’ingresso dell’Autostrada A4: la guidava un allevatore di cani italiano. «I più furbi, per sfuggire ai controlli, partono con un carico grande che poi viene diviso su più automobili con al massimo cinque animali», spiega l’avvocato Ricci. Così devono aver fatto i due romeni fermati dai carabinieri di Vigasio (Verona) con due bulldog e due alani, non vaccinati, provenienti dall’Ungheria. E lo stesso è probabile che sia accaduto ai tre cuccioli di pastore tedesco, avevano meno di otto settimane, trovati dalla polizia stradale di Venezia in un’area di servizio: gli agenti se ne sono accorti perché attirati dai guaiti che arrivavano dall’auto. L’elenco potrebbe continuare a lungo.
IL BUSINESS
Nel 2014 i sequestri di cani vittime dei trafficanti sono stati 550, 45 le persone denunciate per detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura, maltrattamento di animali, frode in commercio, utilizzo di falsa documentazione, traffico illecito di animali da compagnia. È la classica punta dell’iceberg: la Lav stima che il numero di cani importati in Italia sia enormemente più grande, e tocchi i duemila ogni settimana. «La tratta dei cuccioli dai Paesi dell’Est si dimostra uno dei business più redditizi», si legge nel dossier stilato quest’anno dalla Lega antivivisezione. Che calcola un giro d’affari annuale di circa trecento milioni di euro. E conferma quanto le cronache locali raccontano copiosamente: «In prevalenza i cani arrivano dall’Est, in particolare dall’Ungheria, e tra le persone denunciate nel nostro Paese ci sono non solo italiani ma anche slovacchi, romeni, serbi». Una volta superati i controlli i cani vengono ceduti dagli importatori agli allevatori, e da questi a commercianti conniventi, l’ultimo anello della catena. I cani, imbottiti di medicinali per migliorarne le condizioni, saranno rivenduti nei negozi, o addirittura via internet su siti come Ebay e Kijiji, a prezzi che variano dai 700 ai 1.200 euro a seconda della razza.
IL SISTEMA
Il rapporto Lav del 2015 individua due profili criminali tipici che si celano dietro questo commercio illegale. Da un lato gruppi «disorganizzati», composti da «cittadini stranieri che vivono in Italia e che, fiutando l’affare, rientrano dai Paesi d’origine con cucciolate per venderle in Italia». Ma ci sono anche «vere e proprie associazioni per delinquere che sono capaci di notevole disponibilità economica. Posseggono mezzi e risorse umane e sono in grado di intrecciare rapporti scellerati con veterinari e allevatori collusi. Costituiscono vere e proprie reti del malaffare, anche attraverso società di facciata». Quest’ultimo concetto viene chiarito dal responsabile dell’Osservatorio Ciro Troiano: «Spesso vengono costituite delle società dedicate all’importazione di animali, create appositamente con l’intento di gestire il traffico». Non a caso con sempre maggiore frequenza tra i reati contestati c’è anche l’associazione per delinquere: per questo, oltre che per falso, abuso della professione veterinaria e truffa sono state rinviate a giudizio lo scorso anno nove persone, residenti tra Lombardia e Liguria, scoperte a importare e rivendere cuccioli dalla polizia provinciale di Milano assieme alle guardie zoofile dell’Enpa. In un’altra indagine del 2014, svolta dalla Polizia Forestale e coordinata dalla Procura di Lodi, sono stati scoperti 88 cuccioli, tutti con meno di tre mesi, portati dall’Ungheria in Italia usando auto prese a noleggio e dirette a San Giuliano Milanese. Anche qui viene ipotizzato dai magistrati il vincolo associativo in cui sarebbe coinvolto anche un veterinario, accusato di prescrivere e somministrare farmaci come lo Stormogyl e il Drontal per occultare le reali condizioni di salute dei cani, oltre che di compilare falsi libretti sanitari. In un’intercettazione telefonica tra due del gruppo, il primo, alludendo a dei controlli «pericolosi» dice: «Mi hanno chiamato oggi, mi ha chiamato l’Asl un’altra volta, è un attimo che arrivano». E l’interlocutore risponde stupito: «Non ci credo! Perché di te non hanno trovato niente, e non hanno trovato alcun documento che i cani li ho presi in Ungheria». Poi, alludendo a un dirigente della Forestale, aggiunge: «Comunque loro stanno spaccando, cioè, quello è venuto giù! Tu pensa, è venuto per ciappare a mi... Sto figlio di...».
GIUSTIZIA IMPOTENTE
Nonostante ve ne sia spesso l’ombra nelle indagini, e compaia talvolta anche nelle richieste di condanna, quasi mai il reato di associazione per delinquere viene però poi confermato dai giudici nelle sentenze. La ragione, spiega l’avvocato Claudia Ricci, è tecnica: soprattutto quando non sono state disposte intercettazioni, «è difficile dimostrare che i vari reati vengano compiuti da un gruppo di persone, legate tra loro in modo stabile e continuato, per raggiungere lo stesso effetto. Dimostrare che c’è un commercio illegale, o che ci sono stati maltrattamenti, purtroppo può non essere sufficiente».