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 2015  novembre 08 Domenica calendario

Liutprando e la pornocrazia medioevale

Por­no­cra­zia: è que­sto il ter­mine che, in una sta­ti­stica di com­bi­na­zioni les­si­cali come quelle ora di moda, tro­ve­remmo più esclu­si­va­mente asso­ciato al nome di Liut­prando di Cre­mona, sto­rico latino del decimo secolo, di cui sono uscite in que­sti mesi l’opera omnia con tra­du­zione e com­mento fran­cese a cura di Fra­nçois Bou­gard (Liud­prand de Cré­mone, Oeu­vres, Cnrs Edi­tions, pp. 650, euro 69,00) e l’Anta­po­do­sis, cro­naca in prosa con inter­mezzi poe­tici sull’Europa fra fine IX e metà X secolo, bril­lan­te­mente curata da Paolo Chiesa per la col­lana «Scrit­tori greci e latini» della Fon­da­zione Valla (Mon­da­dori, pp. 568, euro 30,00).
Por­no­cra­zia signi­fica «governo delle pro­sti­tute» e allude all’enorme influenza che donne di volu­bile cuore ma di ambi­zioni chia­ris­sime avreb­bero avuto su duchi, re e papi del X secolo: ad esem­pio la romana Maro­zia, amante di papa Ser­gio III, man­dante dell’assassinio di Gio­vanni X (amante a sua volta della madre Teo­dora, anche lei «una put­tana senza ver­go­gna») e madre del di lui suc­ces­sore Gio­vanni XI, infine sospetta con­cu­bina di Leone VI. Oppure Ermen­garda di Ivrea, la «ragione della cui potenza era (…) che intrat­te­neva com­mer­cio car­nale con tutti». Oppure Willa (qui tra­dotta «Guilla» per evi­tare bar­ba­ri­smi), moglie di Bosone di Toscana, che nell’episodio «più famoso dell’opera, il più famoso – scrive Chiesa – anche per­ché bas­sa­mente por­no­gra­fico» nasconde nella sua cavità geni­tale una cin­tura d’oro gem­mato per sal­varla dal sac­cheg­gio del re Ugo (di Pro­venza, poi d’Italia dal 926), ma viene spo­gliata e fru­gata fino a che lo spun­tare di un filo di por­pora non la espone al disve­la­mento del sot­ter­fu­gio e a una serie di bat­tu­tacce sul nuovo tipo di oste­tri­cia da parte del servo-detective, poi punito con una basto­nata.
Liut­prando man­tiene su que­sta scena un atteg­gia­mento di riserva morale, chie­den­dosi se fosse più cri­ti­ca­bile la donna o il servo che non mostra rispetto del suo corpo e che, men­tre tutti distol­gono lo sguardo per pudore, non esita a inda­garla directo obtutu, con un’occhiata diretta quasi più oscena della per­qui­si­zione che ne segue. In realtà, l’episodio, al di là della pru­de­rie, ha una sua cen­tra­lità nella com­pren­sione di que­sti piro­tec­nici sei libri, scritti per «ripa­gare» Beren­ga­rio e Willa seconda (figlia della mal­ca­pi­tata di cui sopra) dei torti inflitti a Liut­prando, suo ex amba­scia­tore, ma che delle male­fatte di Beren­ga­rio non par­lano se non per rapido cenno. La cen­tra­lità della scena di Willa sta anzi­tutto nella tipo­lo­gia ses­suale del suo con­te­nuto, che emerge come tratto ricor­rente dei rac­conti di Liut­prando: quando deve spie­gare per­ché i cie­chi vivano più a lungo ricorre alla favola ovi­diana di Giove e Giu­none che discu­tono se sia l’uomo o la donna a godere di più; quando il Tebaldo di Spo­leto scon­figge i Greci li fa castrare tutti, salvo uno la cui moglie viene a sup­pli­carlo di cavar­gli pure gli occhi ma rispar­miar­gli i testi­coli, per evi­tarle di per­dere «il ristoro del suo corpo e la spe­ranza di prole futura», susci­tando insieme una fra­go­rosa risata e la bene­vo­lenza di Tebaldo. Soprat­tutto, quella che si può con­si­de­rare la vera con­clu­sione dell’opera, ossia la fine del libro V (il VI è un’aggiunta poste­riore, anche se auten­tica), rac­conta un’altra impresa dell’inesauribile Willa, che tra­di­sce il marito Beren­ga­rio con un cap­pel­lano, pre­cet­tore delle due figlie. La tre­sca viene sco­perta a causa dell’abbaiare di due cani, ma la mar­chesa pre­viene le inda­gini accu­sando il chie­rico di fre­quen­tare le sue serve. Per puni­zione il prete viene castrato, ma secondo gli ese­cu­tori del castigo «la padrona faceva bene ad amare uno così, visto che por­tava le armi di Priapo».
Secondo Paolo Chiesa la sto­riella, che si avvale di richiami da Teren­zio e Gio­ve­nale, rap­pre­sen­te­rebbe «una con­clu­sione spet­ta­co­lare», segno dell’intenzione pre­cisa di chiu­dere con un fatto emble­ma­tico. La cin­tura di Willa sarebbe dun­que, sul piano della scelta tema­tica, il cul­mine di quello che Gustavo Vinay – a tutt’oggi (con Auer­bach) l’interprete più acuto di que­sto scrit­tore – defi­niva nel 1979 «pria­pi­smo» di Liut­prando, «in insta­bile equi­li­brio orchi­tico» fra pate­ti­smo e riso impa­ziente di osce­nità.
Ma l’episodio della cin­tura è emble­ma­tico anche del dif­fuso regi­stro grot­te­sco, che non evita descri­zioni dirette di mate­ria deli­cata e pri­va­tis­sima, ma la tra­sforma in sketch da com­me­dia antica, ser­ven­dosi di fram­menti clas­sici ricom­po­sti in un impa­sto che del tono sar­ca­stico e diver­tito fa un’arma trion­fale al ser­vi­zio di quello che è stato chia­mato lo «spe­ri­men­ta­li­smo» del latino otto­niano, vistoso nel plu­ri­lin­gui­smo greco-latino di Liut­prando ma atte­stato con tec­ni­che diverse in molti autori di que­sto secolo «di ferro».
Por­no­cra­zia e osses­sione ses­suale fanno dell’Antapodosis un pal­co­sce­nico di per­so­naggi fem­mi­nili che pon­gono un più serio pro­blema inter­pre­ta­tivo. C’è chi, come Levine, di que­sta scur­ri­lità ha voluto sug­ge­rire una let­tura bach­ti­ni­nana in cui il riso e in gene­rale l’espressione oscena e ser­vile sono rive­la­tori dal basso di un punto di vista abi­tual­mente cen­su­rato.
C’è chi, come Cri­stina La Rocca, ne ha dato una let­tura poli­tica vedendo nelle donne e negli uomini che Liut­prando disprezza come effe­mi­nati la pola­riz­za­zione del nega­tivo, al punto che l’ordine poli­tico neoim­pe­riale, por­tato da Ottone I di Sas­so­nia al cui ser­vi­zio Liut­prando tra­scorre la seconda parte della vita, viene con­trap­po­sto al caos tardo-carolingio carat­te­riz­zato da una insta­bi­lità fem­mi­nile e anar­chica nella gestione del potere. Altri, come Paolo Chiesa, rove­sciano l’argomento sot­to­li­neando invece che in Liut­prando la donna, anche se disin­volta, è sem­pre abile e intel­li­gente, «una spanna più in su del suo inter­lo­cu­tore maschile», capace di domi­nare i maschi con cui si misura. E in quest’ottica il modello teren­ziano inter­viene a fil­trare l’intrinseca miso­gi­nia dell’autore: certo è che Liut­prando deforma per­so­naggi fem­mi­nili che altre fonti coeve pre­sen­tano in atteg­gia­menti assai più casti.
Il Medioevo di Liut­prando è il Medioevo che ama imma­gi­nare chi non cono­sce l’immensa varietà di quest’epoca: spre­ge­vol­mente miso­gino, feu­dale, spie­tato, vol­gare, fami­li­sta, incon­clu­dente, eccle­sia­stico senza essere cri­stiano. Ma fino in fondo non si capi­sce se tutto que­sto è serio o iro­nico, con­vin­zione o oppor­tu­ni­smo, aggres­si­vità esi­bita o con­trol­lata, miso­gi­nia per prin­ci­pio o per paura. Liut­prando, come ricorda Arnaldi nella magi­strale pre­messa bio­gra­fica, è dia­cono quando scrive l’Antapodosis ed è vescovo (nomi­nato dal potere poli­tico, come si usava al tempo) quando scrive le altre sue opere: il fan­ta­sma­go­rico reso­conto dell’ambasceria alla corte di Bisan­zio (la Lega­tio), un pane­gi­rico impe­riale e un’omelia di recente indi­vi­dua­zione, tutte tra­dotte e ric­ca­mente com­men­tate nell’edizione fran­cese. Ma rara­mente il Dio cri­stiano, che resta soprat­tutto un’istanza espres­siva, diventa pro­ta­go­ni­sta del suo tea­tro. Anzi, i monaci sono nomi­nati una sola volta come gente persa die­tro con­tem­pla­zioni astruse, tanto che quando l’imperatore bizan­tino Romano Leca­peno è costretto in esi­lio in un mona­stero si sente iso­lato in un ambiente incom­pren­si­bile.
La sto­ria di Liut­prando è agi­ta­zione insen­sata di uomini illu­stri e medio­cri, è – scrive Vinay – «pro­cli­vità allo scarto, allo stra­va­gante, al pre­po­tente», è gior­na­li­stico e indi­screto – dice Auer­bach – secondo la ten­denza già radi­cata nella sto­rio­gra­fia romana tar­doim­pe­riale, non più inte­res­sata a rico­struire i nessi cau­sali degli avve­ni­menti ma affa­sci­nata dal gos­sip, dall’aneddoto pru­ri­gi­noso e dai segreti di corte. Per que­sto, come Sve­to­nio e i suoi con­ti­nua­tori, ma con mag­giore respiro geo­po­li­tico, Liut­prando è inca­pace di costruire un romanzo per­ché impe­di­sce l’identificazione del let­tore in un per­so­nag­gio gra­zie al freddo cini­smo che domina sovrano sulle vicende umane. Eros ed heros sono per Liut­prando chiavi novel­li­sti­che, e il suo genio è nell’esserne burat­ti­naio con­sa­pe­vole per­ché la mente impe­gnata in per­corsi intel­let­tuali, come scrive nel pro­logo, «si ristora col bene­fico riso di com­me­die o con pia­ce­voli sto­rie di guer­rieri».
Sovrano del ludus, Liut­prando esprime que­sta sua irre­quie­tezza anche nel lin­guag­gio, intriso di parole, frasi e discor­setti in greco che hanno rap­pre­sen­tato la croce (e la deli­zia) dei filo­logi, schie­rati su fronti oppo­sti che hanno inter­pre­tato que­sto greco ora come cul­tura scritta ora come super­fi­cie orale, come ele­mento strut­tu­rale o ver­ni­cia­tura postic­cia, con la con­se­guenza che, per atte­nersi al mano­scritto più antico e par­zial­mente auto­grafo, nel testo ori­gi­nale a stampa gli inserti greci ven­gono lasciati in forme sgram­ma­ti­cate e incoe­renti, il che non aiuta il com­pito dei redat­tori e dei let­tori, meno age­vole in que­sto che in altri volumi della Valla.
I riflessi delle posi­zioni filo­lo­gi­che diven­tano un puzzle intri­gante anche per i tra­dut­tori e tra­dut­to­logi: Bou­gard ammette nel testo d’autore le glosse latine che spie­gano gli inserti greci e nella tra­du­zione riporta prima il greco poi la tra­du­zione fran­cese della glossa latina, Chiesa non accetta nell’originale le glosse latine, non rite­nen­dole desti­nate al testo, e nella tra­du­zione ita­liana prima ripro­duce il greco poi aggiunge la sua tra­du­zione ita­liana. Que­sto vivace ma fati­coso mix bilin­gue, che apre squarci sulla sto­ria altri­menti nebu­losa del rap­porto fra mondo occi­den­tale e mondo bizan­tino, è dedi­cato, nel pro­logo, al vescovo Rece­mondo di Elvira (poi Gra­nada), che per parte sua rap­pre­sen­tava la mino­ranza cri­stiana in uno spa­zio domi­nato dal calif­fato isla­mico di Spa­gna. Ancora oggi non è chiaro per­ché Rece­mondo avesse chie­sto a Liut­prando, incon­trato allla corte otto­niana, di com­por­gli que­sto intrec­cio di avven­ture mili­tari e ses­suali, que­sto repor­tage – con inter­mezzi poe­tici e dia­lo­ghi tea­trali – di un mondo in cui gli equi­li­bri poli­tici sta­vano ricol­lo­can­dosi e dove donne e uomini, servi e guer­rieri si agi­ta­vano scom­po­sta­mente alla ricerca inu­tile e breve di una impos­si­bile stabilità.