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 2015  novembre 09 Lunedì calendario

Stallone, 69 anni, torna a fare Rocky (come allenatore)

Ancora? Uno sente che Sylvester Stallone, 69 anni compiuti a luglio, torna nel ruolo di Rocky e la prima ovvia reazione è: ma com’è possibile? Dal primo Rocky, che nel 1976 ha lanciato la sua carriera, Stallone ne ha fatti altri 5 e con l’ultimo, Rocky Balboa nel 2006, era stato chiaro. Basta, aveva detto. Il mio pugile appende i guanti al chiodo. Ma come il suo personaggio, Stallone è uno che quando è a terra e il conteggio sta per arrivare a dieci si rialza in piedi. È sempre stato uno determinato, alla faccia di tutti gli ostacoli e di tutte le difficoltà. E così ecco di nuovo il nostro Rocky che in Creed accetta riluttante di allenare un giovane pugile (Michael B. Jordan) che è poi il figlio di Apollo Creed, uno dei suoi rivali storici. Insomma, entra nel ring solo per restare nell’angolo tra un round e l’altro. E ha un’altra battaglia da condurre: quella per la propria sopravvivenza, perché è malato di cancro.
Sessanta film alle spalle, un recente rilancio di carriera grazie alla serie che ha inventato e prodotto, I mercenari, Stallone sa che verrà ricordato per due personaggi: quello di John Rambo, il veterano del Vietnam che ha ancora conti da regolare, e per Rocky. Sotto la camicia di Stallone si intravedono forti bicipiti. Ma si rivela subito come un quasi settantenne che riflette sulla sua vita e che sa come non prendersi troppo sul serio.
Stallone questa volta è dall’altra parte, fa l’allenatore. È stato duro appendere i guanti?
«Accettare che il tuo corpo non può più andare dove vuoi è duro mentalmente. Ma questa storia non è su Rocky ma su Creed, un nuovo personaggio: è stato molto gratificante vedere Michael B. Jordan che si allenava e che sviluppava la mentalità del lottatore».
Rocky ripete da sempre: un passo alla volta, un round alla volta. E Stallone?
«Oddio. È più “dieci passi alla volta” anche se poi realizzo che nove erano sbagliati! Il mio motto direi che è: senza paura. Nel dirigere, nel recitare, nello scrivere ho sempre cercato di fare cose che mi mettono un po’ di paura. Anche questo film mi metteva paura. L’ho rinviato per due anni, finché mi sono convinto che era arrivato il momento giusto per farlo».
Si dice Stallone e nel mondo intero si pensa a Rocky. O a Rambo. Ma ci sono altri aspetti della sua vita. Scrive, dipinge...
«Da bambino ero dislessico. Non si usava questa parola ai tempi, pensavano che fossi un po’ debole, ma avevo difficoltà a leggere. Così ho iniziato a dipingere, poi sono passato alla scrittura e a immaginare delle storie. Rocky prima l’ho dipinto e su quella base ho deciso chi era e cosa faceva. Insomma, tutto è nato con un problema da bambino, mai avrei pensato che mi avrebbe portato dove sono».
Che cosa significa vincere?
«Per ognuno è diverso. Per me vincere è darsi degli obiettivi che puoi raggiungere, realistici. Per esempio, io vorrei essere il più grande attore shakespeariano vivente! Non potrà mai accadere, dunque perché provare? Un’altra cosa importante è non essere invidiosi delle abilità degli altri e di contare sulle proprie, di svilupparle».
Sono passati quasi 40 anni dal primo Rocky. Ha rimpianti?
«Purtroppo non nasciamo con la saggezza e la saggezza viene con gli errori. Diciamo che avrei affrontato le mie relazioni personali diversamente: ne ho avute di molto dinamiche che sono diventate guerra permanente. Nella professione ho sviluppato film di azione che hanno rappresentato gli Anni ’80 e ’90 e che ora non si fanno più. Ecco, se ho un rimpianto è che avrei voluto essere più versatile e affrontato altre sfide».