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 2015  novembre 09 Lunedì calendario

Peter Sagan, il ciclista campione del mondo che arrivava sempre secondo

PARENZO. L’ha detta, se la ricorda quella frase. La ripete, cercando di limarla, aggiungendoci la moderazione che si deve a un campione del mondo. «Io non sono il secondo Merckx. Sono il primo Sagan. È che non ho mai avuto idoli. Mai avuto nulla da inseguire, se non una vita migliore». Siede, abbandonandosi in un divanetto di pelle. Lo sguardo è glaciale. Sarà lui a dire basta, andiamo, le parole sono finite. Chiedergli se finalmente, ora che la stagione è finita, si stia riposando ha l’effetto di metterlo a disagio. «Le sembra che mi stia riposando?» No, anche se intorno il sole dell’Istria inquadra una festa che è della Tinkoff e soprattutto sua. «È che, io, non sono una persona così aperta come si crede e le feste e soprattutto le troppe domande dopo un po’ mi vengono a noia». Facciamo così allora, Peter Sagan, la prima domanda la faccia lei. «Ci sto, allora, lo sa quante sono le mie vittorie in carriera?». «Tante non vale come risposta, è chiaro».
«Mi dica il numero esatto».
Sono 69, quindi tante, secondo la fonte più attendibile. Lui ne conta qualcuna di più, ma nemmeno lo sa, «72, 73». Di Peter Sagan, però, non colpisce tanto la quantità di vittorie. Colpiscono due dati. Il primo: ha 25 anni. È nato a Zilina, in Slovacchia, nel 1990, lo stesso anno di Fabio Aru, ma anche di Kwiatkowski, Dumoulin, Quintana, Chaves, Pinot, Bardet: il meglio del ciclismo di ora e dei prossimi anni è venuto al mondo a distanza di pochi mesi. Però, sommando le vittorie degli altri, si arriva assai lontano da 69. Il secondo dato è la contraddizione dentro cui vive il fenomeno Sagan: nel 2015 è arrivato secondo 17 volte.
La verità è che il Mondiale, a Richmond, Peter Sagan l’ha vinto nel suo anno peggiore. «Se guardiamo ai piazzamenti forse sì, però sono comunque arrivati 10 successi, c’è chi 10 vittorie non le mette insieme nemmeno correndo vent’anni. La prima gara in maglia iridata, poi, di nuovo secondo. A tanti ho dato la gioia di battermi. A volte tonto, a volte troppo sicuro. A volte sfortunato. Però, insomma, guardi qui». L’iride nel bianco spunta sotto la tuta gialloblù. Oleg Tinkov un anno fa gli ha messo sotto il naso un contratto da 4 milioni l’anno. Per questo, poi, il magnate russo ha immaginato di poterne possedere anche l’anima, oltre che le gambe. Ma Peto o Peter Pan, o l’incredibile Hulk, è nato molto prima di quella firma. «Ricordo il quarto posto alla terza corsa da pro, al Tour Down Under. Ricordo che fu una fatica bestiale. Ricordo la prima vittoria, alla Parigi-Nizza, a Aurillac, su Purito e Roche». Correva nella Liquigas. «Mi avevano adocchiato loro, ero stato campione del mondo juniores di Mtb, in val di Sole, in un certo senso l’Italia mi è sempre stata amica». La bici si è messa di traverso ai piani che la vita aveva per lui, una volta molti anni fa. «Zilina è una cittadina tranquilla, di lavoratori. Mio fratello gestisce una pizzeria, forse sarei lì ora, forse da un’altra parte, nessuno ha mai scritto abbastanza su quanto conti la fortuna». Le gare di paese in un Paese che si è spezzato in due nei primi anni Novanta, la Slovacchia di qua, Boemia e Moravia di là, e che oggi vuole costruire un muro per contrastare l’immigrazione: «L’Europa si alliscia il mento, Peto – dovrà farsi un esame di coscienza e dovrà capire che il male fatto prima o poi ritorna».
La prima pedalata a 9 anni. La fortuna che si sbriga a ronzargli intorno. «Ho fatto il ballerino per un mese, poi l’attore, un giorno ho acceso la tv, c’era il Tour, non ho cambiato canale».
La scena madre si apre a 3 km dal traguardo di Richmond, Virginia, il Mondiale. Sette ore di corsa, poi il lampo. Né troppo presto, né troppo tardi. Come mai nella stagione. «Nel ciclismo la prima regola è: arrivare al traguardo. La seconda: nel più breve tempo possibile. La terza: prima che arrivino gli altri. A Richmond sono arrivato ai 3 km in piedi e la guerra se la stavano facendo quelli che avevano la squadra. La mia era minima, me stesso, mio fratello Juraj, Michael Kolar. Loro due si sono ritirati quasi subito». I pensieri che vanno a Van Avermaet, alla tappa del Tour persa di un centimetro. Tano Belloni hanno iniziato a chiamarlo in gruppo. Il Belùn, il troppe volte secondo. A un certo punto perde il pedale dallo scarpino. Olano aveva forato a Duitama e fece 300 metri sul cerchione, 20 anni prima. Tutti a lavorare dietro. Peto recupera la leva che spinta contro la forza di gravità trasforma l’energia in movimento. Non è secondo, il troppo volte secondo.
Hanno detto: Sagan è troppo basso per essere un velocista, troppo pesante per essere uno scalatore, troppo leggero per essere un cronoman. «Dovrei smettere, insomma». Merckx vinceva da velocista, era uno scalatore, centrò il record dell’ora. Aveva un cuore lento (44 pulsazioni al minuto, a riposo) e irregolare, per i regolamenti di oggi nemmeno avrebbe dovuto correre. Il cuore di Sagan, in un minuto, batte 32 volte. Ai limiti della cardiopatia, non fosse per le pareti spesse del ventricolo sinistro. La macchina ha capacità fuori dal comune. Le acrobazie, le impennate, il resto fa parte della vita di un ragazzo che, con la sua sola presenza, fa delle corse un tutti contro uno. Però, dopo il traguardo di Richmond, l’hanno abbracciato tutti. Come se per il bene del ciclismo dovesse vincere lui.
A Zilina l’hanno accolto in 30mila. Tra Twitter e Facebook, il popolo dei saganiani è assai vasto, «siamo sui 100mila complessivamente, è bello ma non conta essere qualcuno nel mondo virtuale, anzi, stiamo vivendo una vita di rapporti falsati dalla virtualità, non sappiamo più conversare, divertirci, vivere con gli occhi staccati da uno schermo». Sagan il luddista si riavvia i capelli, dà un’alta sorsata allo champagne, poi pensa a ciò che ancora manca: «Una Roubaix, una Sanremo, senza si dirà: Sagan chi? No grazie, ho progetti più ambiziosi, su me stesso».