la Repubblica, 9 novembre 2015
Romagnoli ricostruisce dall’inizio la sconfitta-vittoria di Valentino e cita Kevin Schwantz: «Non doveva accusare, ma prendere Marquez in corridoio e lì finirla»
VALENCIA. Disse Norma Desmond nel film “Viale del tramonto”: «Io sono ancora grande. È il cinema che si è rimpicciolito». Da ieri Valentino Rossi è più grande di prima, ma è il mondiale di Moto Gp a essersi ridotto. Alla dimensione di una parrocchiale recita spagnola per la regia di Marc Marquez. Abbiamo pagato il biglietto per una riunione di pugilato e ci è toccato il wrestling. Una farsa, senza né colpi né sfioramenti: la parodia di uno sport. Tre figurine davanti, incollate a un ruolo designato. E un pilota, un uomo, dietro, con un fossato incolmabile in mezzo, ma capace di arrivare fino all’orlo del possibile. Valentino Rossi ha corso la sua gara più bella perché ha riscattato ogni singolo istante di questo mondiale e della sua carriera, riparato ogni errore, legittimato ogni accusa. Ha rimontato ventidue posizioni, raggiunto quel limite che alla vigilia i calcoli matematici gli avevano assegnato se avesse fatto la gara perfetta. L’ha fatta. Oltre, c’è stata una spudorata finzione, una “galleta”, un biscottone inzuppato nel mulino nero che macina nella testa di Marquez. E alla cui mensa il campione proclamato Jorge Lorenzo si è felicemente seduto. Noi che crediamo nella lealtà, nell’onore e nell’etica della lotta già siamo condannati a traversare molto deserto, ci rivolgiamo allo sport come a un’oasi, ai piloti come a sorgenti, per quel che rischiano. Da ieri ci resta da rispettarne, tra i consacrati, soltanto uno: Valentino Rossi.
Ma a lui poco importa, adesso. Poco della sconfitta del suo sport e di chi lo governa, molto, anzi soltanto, della sua personale. Lo ammette e ci ride sopra, amaramente. Aveva costruito una stagione epica, per arrivare al decimo titolo a 36 anni, correndo contro i propri “figli”. Uno di loro (Marquez) ha deciso di commettere il parricidio perfetto per abbattere l’idolo e un altro (Lorenzo) si è preso l’eredità senza affrontare pericoli. Un epilogo desolante che Valentino sostiene di aver già previsto con esattezza da giorni, da quando la penalizzazione che lo ha costretto a partire per ultimo gli è stata confermata: «Mi hanno detto che era impensabile andasse così, ora l’hanno visto, l’ha visto tutto il mondo, e chiaramente».
È un uomo deluso. Prova a immaginare un’altra occasione («In fondo a 36 o 37 anni, biologicamente si è uguali»), ma sa che non sarà facile. La marea gli ha cancellato il castello di sabbia mentre stava per completarlo, mancava una torre. Ma la marea è un fenomeno naturale, quel che è successo a Valencia no. Sulle gare precedenti si può avere ancora qualche distinguo, sull’ultima nessuno. Gli aggettivi usati da Rossi: «segnata» e «imbarazzante» sono ancora eufemismi. Lorenzo ha vinto più gran premi (fatto più pole, più giri veloci), ma ha conquistato il titolo grazie a un omaggio. Se lo meritava comunque, non lo merita per questo.
Le vittorie morali si azzerano in fretta, quelle immorali restano. Valentino lo sa, per questo appare gioiosamente affranto. Ricostruirsi alla sua età non è un gioco da ragazzi, ma da uomini maturi. Ci ha messo impegno e palestra, dedizione e fiducia in se stesso. Ha cambiato atteggiamento in corsa, rischiato meno per arrivare sempre. È diventato, lui così istintivo, regolare. Ha sacrificato l’ebbrezza della vittoria alla solidità del podio. Il suo trionfo ne avrebbe fatto una definitiva leggenda, capace di sfidare anche la legge del tempo. Qui dev’essersi generato quel complesso che ha scatenato la mente di Marquez. Un conto è avere un mito, un altro è che questo diventi inarrivabile, che il padre dell’umano si riveli Zeus. E allora, che fare?
«Una vendetta personale», è la spiegazione di Rossi.
Non un’alleanza nazionale di spagnoli federati per la bandiera aldilà delle scuderie. Neppure una rivolta generazionale di rottamatori uniti dall’hashtag “Valentino stai sereno”. La semplice volontà di un ragazzo di 22 anni che ha tutta la vita davanti, ma davanti non voleva più Valentino Rossi. Piuttosto Lorenzo. Che non poteva certo rifiutare un dono del genere. Che ha fatto le sue gare senza vedere i tabelloni, tanto aveva “il guardaspalle”, come lo chiama Rossi ora che non ha più remore.
Quando ha fiutato la manovra, dopo il gran premio australiano, l’ha denunciata pubblicamente. E lì ha probabilmente sbagliato. L’indimenticato Kevin Schwantz, che correva in un’epoca di cavalieri, gli ha rimproverato: «Doveva prendere Marquez in corridoio e lì finirla». L’errore è stato credere che la luce del sole l’avrebbe protetto, che le autorità del mondiale avrebbero convocato entrambi, che la spudoratezza avrebbe avuto un limite. Ora lo riconosce, ma è tardi. Ha riconosciuto anche di aver sbagliato in Malesia, allargando la traiettoria in curva e poi rallentando, ma la sanzione era già immutabile. Eppure non sarebbe bastata a fermarlo, se a Valencia ci fosse stata gara, se ci fossero state lealtà e onore.
Valentino sapeva «di avere il destino segnato» eppure ci ha provato. Una sola altra volta (in Qatar nel 2004) era partito ultimo e risalito fino al quarto posto. Poi però era caduto, avendo perso energia e concentrazione. Stavolta è rimasto in sella fino al traguardo. Dev’essere tremendo scoprirsi più forte dopo undici anni e doversi arrendere a un complotto. Senza possibilità di rivincita e di appello. Che effetto fa?
«Bisogna accettarlo. Almeno ora nessuno avrà dubbi».
Non è una consolazione e lo sa. Ognuno si racconta la storia che vuole. Il vincitore la detta ai posteri. Lorenzo continua con la sua versione senza retrovisore e tanto vale dirglielo apertamente che: «O è stupido o ha la coda di paglia». Marquez ripete che ha tirato al cento per cento, anche se è la prima gara in due anni e forse nell’intera carriera (tricicli compresi) in cui non prova mai ad attaccare chi gli stava davanti. Perché? Lo sa Valentino perché: «Così quando avrei guardato le immagini della corsa e avrei capito, lui avrebbe goduto. Voleva che vedessi proprio questo, che ne aveva eccome per superare Lorenzo, ma non l’ha fatto. Sapere che avrei capito lo rende felice. L’han capito in molti, compresi gli spagnoli che lo hanno fischiato? Uno così se ne sbatte i coglioni di tutti».
È questo il Valentino triste e finale. È come quello della rimonta che sarebbe stata perfetta: non frena più. E perché dovrebbe? Che altro ha da perdere? Chi gli vuol bene è più arrabbiato di lui. L’amico Uccio è un vulcano dopo l’eruzione. La fidanzata Linda è più gelata del frigorifero al quale si appoggia da giorni. I tifosi sono già consapevoli che la gioia libera e la rabbia fa prigionieri. Lui, solo, in bermuda e cappelletto d’ordinanza, sorride nervosamente. Dà un’ultima rimestata al calderone dell’accaduto, poi smette. Non vuole esibire la sofferenza mentre Lorenzo farà festa in pubblico e Marquez in privato. Sa che l’indignazione sbollirà lentamente, perché si preparano già una nuova stagione, nuovi contratti e il circo non può fermarsi solo perché ha perso la reputazione: nessuna clausola la richiedeva, le televisioni non la trasmettono, in tanti fanno fortuna dopo averla perduta o regalata.
Dice: «Noi non siamo il calcio o la Formula Uno, ho sempre pensato. Oggi invece abbiamo visto una di quelle situazioni combinate da partita di serie C dove ci si accorda per un pareggio perché una delle due non retroceda. E questo cambia qualcosa».
Si illude. E se ne rende conto un attimo dopo. Cambierà la percezione del pubblico, mai così numeroso e attento, ma soltanto fino al prossimo capitolo. Gli organizzatori apparecchieranno un’altra “corsa del secolo” e a quella si andrà con la stessa infantile aspettativa con cui guardiamo il calcio e la Formula Uno, per non dirci che anche le oasi sono sabbia in gola.
Da domani si ricomincia con nuove regole e strumentazioni. Anche Valentino rimonterà in sella. Che altro potrebbe fare? Ha un contratto da rispettare (per lealtà, oltrechè per soldi) e non può avere paura (onore). È strano, è spiacevole sentirglielo dire: «Dovrei forse fermarmi per paura?». Allude a una possibilità che va oltre ciò a cui ci si può perfino rassegnare, ossia che la vendetta di Marquez non sia compiuta, che non gli bastasse detronizzare il mito, ma intenda spingersi più in là, non battendolo ma abbattendolo, fisicamente. Sembra incredibile, ma lo era anche la prospettiva di questa corsa senza sfide, di questa recita per controfigure dove l’unico attore è rimasto sul palco vuoto, a declamare le battute del copione mentre gli altri erano già in camerino a brindare.
Adesso inizia per Valentino un’altra rimonta: contro il tempo che è avanzato ulteriormente, gli avversari diventati nemici e quel che dentro di lui può essersi incrinato. Un po’ di gusto in meno nel fare le cose che ha sempre amato, un po’ di rispetto in meno per l’ambiente che lo ha, più che circondato, accerchiato. Ripartirà comunque. Non lo volesse lui, sono gli altri ad averne bisogno. Lo ha visto ieri il mondo intero: togli Valentino Rossi a questo sport e che cosa resta? Una pattuglia di spagnoli su moto giapponesi che fanno il girotondo nel cortile di casa. Se l’unico grande torna in garage, per i bambini scende il buio.