la Repubblica, 9 novembre 2015
In che modo l’Isis si sta espandendo e come ha fatto ad essere presente anche in Sinai
Più o meno un anno fa Abu Bakr al Baghdadi, leader dello Stato islamico, annunciò l’istituzione di sette wilayat, ossia provincie, del nuovo califfato, proclamato a seguito della conquista della città irachena di Mosul, cinque mesi prima. L’espansione interessava un territorio che va dall’Algeria allo Yemen. Seguì l’annuncio della nascita di nuove province in Afghanistan e, quest’anno, in Nigeria.
Tra le provincie proclamate una delle più importanti era il Sinai. La propaganda ufficiale dello Stato islamico ovviamente non è scesa nei particolari del complesso negoziato che ha portato all’alleanza con i militanti della penisola egiziana. Non sappiamo se l’iniziativa sia partita dall’Is o dai leader del Sinai.
La massima dello Stato islamico è «resistenza e espansione». Pur essendosi posto come priorità il consolidamento del territorio conquistato in Iraq e in Siria, il gruppo non ha mai fatto mistero del progetto di espandere il califfato, portandolo a superare in estensione i grandi imperi islamici di un millennio fa, fino a comprendere Roma, Parigi o addirittura Washington.
I primi califfi a capo della comunità musulmana dopo la morte del profeta Maometto procedettero a un’espansione diretta. Gli eserciti inviati dalla Mecca, Damasco, Baghdad, Sammara portarono i confini dell’impero islamico dall’Andalusia all’odierno Pakistan, con la conquista, l’imposizione e la persuasione esercitate sui governi esistenti.
Benché Abu Bakr Al Baghdadi intenda emulare i suoi predecessori, sa bene che gli sarebbe impossibile far marciare il suo esercito attraverso la Giordania per conquistare Gerusalemme, o attraverso il deserto per rivendicare i luoghi sacri in Arabia Saudita. Deve quindi ricorrere a una strategia indiretta: espandersi stringendo accordi con le fazioni esistenti. In questa maniera l’Is guadagna influenza, forza e prestigio e i combattenti locali legittimazione e risorse. Non è necessaria la contiguità territoriale: si vanno a creare isole di militanza.
Il Sinai, vicino a Israele, costituisce un obiettivo importante per l’Is e i contatti con i militanti in quell’area risalgono a un’epoca precedente alla proclamazione del califfato. L’utilità di questa alleanza è ora più che mai chiara. L’ipotesi che l’airbus Metrojet sia stato realmente abbattuto dall’organizzazione locale affiliata all’Is è sempre più accreditata. Sappiamo che si è verificata un’esplosione, che i membri dell’Is, evidentemente a conoscenza delle modalità di esecuzione, hanno esultato prima della rivendicazione ufficiale e che le autorità sospettano che sia stata collocata una bomba in un bagaglio in stiva.
È grazie a questo nuovo potenziale – risultato diretto del rapporto con un gruppo locale – che ls è riuscito a realizzare uno degli attentati estremisti più spettacolari degli ultimi 14 anni, rafforzando il suo primato di organizzazione militante e relegando la rivale Al Qaeda negli annali.
Al Qaeda non è stata in grado di espandersi e neppure di mantenere le alleanze esistenti. Il gruppo Al Shabab in Somalia, il cui leader un tempo aveva giurato fedeltà al leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, dà segno di essere pronto ad aderire all’Is. In oltre dieci anni Al Qaeda non è stata in grado di realizzare un attacco spettacolare di massa con vittime civili occidentali, il genere di attentato che sembrava la sua specialità. Lo ha fatto l’Is ora a quanto pare, colpendo non solo i”crociati dell’Occidente”, ma anche i “crociati dell’Est”, come i militanti definiscono i russi.
L’Is ha quindi lanciato una campagna terroristica globale? A prima vista si direbbe di sì. Finora l’Is ha ucciso ostaggi occidentali ed era dietro gli attacchi ai turisti in Tunisia, ma non sembrava interessata a una campagna mirata direttamente al “nemico lontano”, ossia gli Usa e i loro alleati, piuttosto che al “nemico vicino”, costituito dai regimi del Medio Oriente, limitandosi ad appelli agli estremisti musulmani in Occidente a colpire a livello locale.
Ma a uno sguardo più attento non è detto che la bomba sull’aereo che sorvolava il Sinai – se i sospetti saranno confermati – sia prova che l’Is ha scelto la strategia adottata da Al Qaeda dal 1998 in poi. Può darsi che l’operazione nel Sinai abbia coinvolto un gruppo locale, usando materiali locali contro un obiettivo locale. L’aereo era carico di russi, certo, ma si trovavano a Sharm el-Sheikh, non a Mosca. È altrettanto importante considerare che i russi sono diventati un bersaglio a seguito del loro intervento nel contesto locale della guerra in Siria. Quindi la tragedia dello scorso fine settimana non indica che sia già in atto una campagna terroristica mondiale, pur essendo un passo in quella direzione.
Si tratta comunque di una magra consolazione, in particolare per le famiglie delle vittime. Ed è anche una magra consolazione per gli egiziani. Mosca sta procedendo a evacuare dal paese 80.000 turisti. Il prossimo anno ci saranno pochi vacanzieri sul Mar Rosso. La fragile economia del paese ha subito un altro grave colpo.
Vale la pena di ricordare che lo jihadismo contemporaneo nacque proprio in Egitto, da menti come Syed Qutb, impiccato nel 1966, e Abdul Salam Farraj, che ispirò gli autori dell’omicidio del presidente Anwar Sadat nel 1981. Benché l’Is oggi tragga ispirazione da altre componenti della militanza islamica – ad esempio il nuovo settarismo e la visione millenaria dell’apocalisse imminente – questi pensatori continuano ad esercitare enorme influenza.
Sono però importanti anche gli avvenimenti degli anni ’80 e ’90. A quell’epoca i militanti islamici in Egitto lanciarono una campagna concertata per rovesciare il regime di Hosni Mubarak. Fallirono, sconfitti in parte dalla topografia dell’Egitto, dalla mancanza di montagne o foreste in cui trovare rifugio, ma anche dall’assenza di sostegno popolare, cui contribuì in maniera significativa il danno causato all’economia dalla violenza che sconvolse il paese minando l’industria turistica.
Questa volta è difficile essere ottimisti e pensare che la violenza in Egitto e altrove nella regione si riduca in tempi brevi.
I militanti di oggi sono apparentemente in grado di sopravvivere, addirittura di prosperare, nell’ambiente ostile del deserto. Non hanno bisogno del sostegno e dei finanziamenti della classe media urbana o dei commercianti. Il regime di Abdel Fatah Al Sisi sta conducendo nel Sinai una campagna contro-terroristica brutale e inefficace che, nel migliore dei casi è controproducente, nel peggiore totalmente pericolosa. Significa che il peggio – in Egitto e, per estensione, anche altrove – deve ancora venire. Nella logica dell’escalation che caratterizza tutte le campagne terroristiche rientrano inevitabilmente ulteriori tentativi di uccidere in gran numero i “crociati”, come l’Is li definisce. È probabile che alcuni di questi tentativi vadano a buon fine.