Corriere della Sera, 9 novembre 2015
Storia di Matthias Schoenaerts, che voleva fare il calciatore, o forse il pittore, e che è finito divo del cinema
Fan sfegatato del Barcellona, sognava un futuro alla Lionel Messi. È diventato invece uno dei volti più richiesti del cinema, etichettato da Hollywood come il Marlon Brando belga. Definizione in cui, però, Matthias Schoenaerts non si ritrova. «Non sono un divo, né uno che pianifica il futuro a tavolino – dice —. Anzi sono un passionale, mi piace lanciarmi senza rete in quello che faccio. Voglio lavorare come Jackson Pollock, che sulla tela trasferiva tutta la sua energia psichica». Non cita la pittura a caso. A sedici anni graffitava i muri della sua città, Anversa, dove tutt’oggi vive; e dipingere, dice, «non è un hobby ma una vera passione».
Figlio d’arte (suo papà era l’attore Julien Schoenaerts), il divo di A Bigger Splash, il film di Guadagnino nelle sale dal 26 novembre, sognava «di fare il calciatore. Ho giocato nel Beerschot, ma senza grandi risultati. Come a scuola di recitazione: troppe assenze, mi espulsero». Ma è difficile sfuggire al proprio destino. Ripresi gli studi d’arte drammatica, si diploma e comincia a lavorare in piccole produzioni. A 20 anni gli è chiaro che seguirà le orme paterne. Suo padre, ricorda, «non ha mai forzato le mie scelte, voleva che seguissi le mie inclinazioni. Ho finito col fare l’attore, come lui. Mi spiace che oggi non possa vedermi: è morto nel 2006, negli ultimi anni l’Alzheimer se l’era divorato».
Il successo per Matthias arriva con Bullhead (2011) di Michael Roskam, candidato all’Oscar come Miglior film straniero. Non pensa che oggi suo padre sarebbe fiero di lei? «L’unica cosa importante, per lui, era che seguissi le mie inclinazioni. Del successo non gli importava, o in minima parte; sapeva che la fama non un lasciapassare per la felicità». Che il divo trova invece «nella chimica tra attore e regista, nella “simbiosi” tra le menti quando scatta il ciak. Per me la gioia è stare sul set, è in quel tempo racchiuso tra i comandi “Si gira!” e “Stop!”. Niente di quello che viene prima, o dopo, è altrettanto entusiasmante. Un calciatore è felice quando è in campo. Vale anche per l’attore». Il piacere più grande? «Quando dimentichi che stai interpretando un ruolo, che stai recitando. Quando tutto il resto non esiste più. L’arte che non nasce dall’assoluto senso di libertà in cui converge ogni energia... beh: non è arte».
Nel 2015 ha girato sette film, un record. Tra questi, Suite francese dall’omonimo romanzo di Irène Némirovsky, diretto da Saul Dibb. Che di Schoenaerts ha detto: «è un attore che mescola anima e complessità». È così? Riflette prima di rispondere. «Vede, non mi interessa far apparire gradevoli i personaggi che interpreto, ma renderli comprensibili, e umani. Nella costruzione del caratteri che interpreto sono preciso, meticoloso. Mi rilasso solo quando sono fuori dal set». Tempo fa ha detto che le sarebbe piaciuto sparire per un po’. «Sì, è vero. È anche per questo che continuo a vivere ad Anversa. Questa è la mia città, qui sto bene, posso “staccare” da tutto. Non ho nessuna intenzione di andarmene». Il segreto per restare in equilibrio nel mondo dello showbiz? «Fare come Daniel Day-Lewis, con Mike Tyson uno dei miei idoli, che gira un film ogni quattro anni. Poi però scalpito. Sono impaziente, non mi sazio mai. Mordo la vita. Recitare mi diverte, per me è un gioco. Che prendo però molto seriamente».