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 2015  novembre 09 Lunedì calendario

In morte di Luciano Gallino

Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera
Di Luciano Gallino, scomparso ieri all’età di 88 anni, conservo due bei ricordi personali. Il primo risale agli anni Sessanta. Gallino faceva parte del gruppo di intellettuali che aiutavano Adriano Olivetti a impostare nuove e lungimiranti politiche di gestione del lavoro e del territorio. A Ivrea, dove abitavo, il nome di Gallino ricorreva spesso, soprattutto in occasione di nuove iniziative culturali o sociali che l’azienda apriva alle famiglie dei dipendenti e all’intera città.
Il sociologo lasciò la Olivetti nel 1971, ma rimase profondamente segnato da quella esperienza. La sociologia industriale e del lavoro rimase uno dei suoi principali interessi. E ancora nel 2001, in una lunga intervista con Paolo Ceri intitolata L’impresa responsabile (Edizioni di Comunità), Gallino tornò a riflettere sull’ingegner Adriano e sulle sue straordinarie realizzazioni. L’Olivetti degli anni Cinquanta fu la prima grande «impresa responsabile», caratterizzata da una strategia produttiva molto efficiente, ma anche capace di migliorare costantemente le condizioni di lavoro. Purtroppo, l’etica dell’impresa responsabile è oggi quasi scomparsa. Nel nuovo capitalismo neoliberista, sosteneva Gallino, l’imperativo è «fare buoni affari e basta» (la nota raccomandazione di Milton Friedman), massimizzare il valore per gli azionisti senza preoccuparsi di altro.
Il mio secondo ricordo riguarda il Gallino professore. Verso la metà degli anni Settanta, all’Università di Torino m’iscrissi al suo corso di Sociologia. Mi trovai di fronte un docente austero, con uno stile molto tradizionale che strideva con il clima lassista e a volte sguaiato di «Palazzo Nuovo». Nelle sue lezioni non si stava seduti sui banchi a fumare e discutere di cospirazioni della borghesia. S’imparavano i classici, si leggeva Karl Marx, ma anche Max Weber e Talcott Parsons. Si guardavano i numeri, commentando le tabelle di Paolo Sylos Labini sulle classi sociali in Italia. Si facevano cose serie, insomma. Sotto la guida di un vero Maestro.
La produzione scientifica di Gallino è vasta e articolata. Ha toccato temi importanti di teoria sociale, soprattutto nel Dizionario di Sociologia (Utet, 1978). Ha affrontato, fra i primi, i rapporti fra informatica, scienze umane, scienze della natura; fra nuove tecnologie e formazione. E ha approfondito in varie direzioni il tema del lavoro e delle sue trasformazioni nell’epoca neo-industriale (un aggettivo che preferiva, saggiamente, al troppo vago «post-industriale»). Gallino ha a lungo diretto la rivista «Quaderni di sociologia» e svolto un’intensa attività pubblicistica, prima sulla «Stampa» e poi sulla «Repubblica».
Nell’ultimo decennio il sociologo torinese è diventato un pensatore sempre più «critico», nel senso filosofico del termine. Un intellettuale, cioè, impegnato nel decifrare pratiche e trasformazioni sociali alla ricerca del loro senso nascosto e delle loro contraddizioni. Attraverso lo strumento del saggio breve, Gallino ha puntato il dito contro diseguaglianze e precarietà, deterioramento ambientale e involuzione tecnocratica della politica. Per lui tutti questi fenomeni sono riconducibili a un macroscopico fattore: la finanziarizzazione del capitalismo, lo strapotere impersonale dei fondi d’investimento e delle istituzioni finanziarie internazionali e l’assoggettamento dei governi ai loro interessi.
Come altri sociologi formatisi tra gli anni Sessanta e Settanta, nei suoi ultimi scritti il professore sembrava aver rivalutato le spiegazioni «strutturali» tipiche della scuola marxista: ciò che muove la società e la politica è, in ultima analisi, il modo di produzione. Rispetto ad altri autori (ad esempio Wolfgang Streeck), Gallino non ha però mai rinunciato alla ricerca di vie d’uscita, nella convinzione che la sconfitta dell’uguaglianza e, insieme, del pensiero critico non sia definitiva. E che dunque sia ancora possibile riorientare la logica del capitalismo globale verso il perseguimento di autentici «scopi umani».

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Paolo Griseri su Repubblica

Di Luciano Gallino, scomparso ieri all’età di 88 anni, mancherà la testimonianza rigorosa e appassionata, la serietà d’analisi che consentiva a tutti coloro che si occupano della società italiana di avere uno sguardo non preconfezionato sui mutamenti dell’ultimo mezzo secolo. Soprattutto mancherà il suo essere punto di riferimento, quasi una cartina di tornasole del mutare delle posizioni altrui: il suo mite radicalismo d’indagine aveva finito per farlo passare, negli ultimi anni, come un intellettuale no global mentre era semplicemente il coerente sostenitore di un riformismo rigoroso e non cortigiano.

Dunque un riformismo autentico.

Dal capitalismo dal volto umano di Adriano Olivetti alla girandola impazzita della crisi dei mutui subprime, Luciano Gallino ha conosciuto e analizzato l’intera parabola del rapporto capitale-lavoro nella seconda parte del Novecento. Utilizzando come metro di valutazione le persone che in quei processi venivano rese protagoniste o schiacciate.

Non avrebbe potuto essere diversamente. Ivrea, negli anni Cinquanta e Sessanta, è stata uno dei principali laboratori di analisi sociale e anche scuola di formazione per intellettuali e futuri esponenti della classe dirigente italiana. Lo ha raccontato nell’intervista su Adriano Olivetti riproposta lo scorso anno da Einaudi con il titolo L’impresa responsabile. Quasi una provocazione se si pensa a certe società quotate in Borsa. Ma, all’epoca, una specie di parola d’ordine per gli intellettuali riuniti intorno dall’azienda di Ivrea. La Olivetti di Adriano e la Torino di Gianni Agnelli erano, all’epoca, i due poli possibili della via italiana al capitalismo. Olivetti chiama Gallino nel 1956 a fare da consulente e sembrava una bestemmia, una stravaganza per un capitano d’industria. Le due one company town sistemate a soli 40 chilometri di distanza, rivaleggiavano sul modello di capitalismo che proponevano.

Una competizione vera, a colpi di marketing sociale: ancora alla fine degli anni Settanta ci fu chi osservò che sull’autostrada i cartelli chilometrici verso Torino erano sponsorizzati dalla Fiat e quelli sulla carreggiata opposta, verso Ivrea, dalla Olivetti. Industria di massa che aveva sconvolto la geografia sociale di Torino quella degli Agnelli, città-comunità che realizzava prodotti d’avanguardia quella degli Olivetti. È in questo secondo campo che il giovane Gallino aveva cominciato a studiare il lavoro e le sue conseguenze sulla società, all’ufficio “Studi relazioni sociali”.

È all’Università di Torino che negli anni Settanta inizia il suo percorso di docente e di ricercatore. Arriva in un momento particolare per la storia sociale ma anche per gli studi sociologici. A Torino il punto di riferimento era per tutti Filippo Barbano, uno dei pionieri della sociologia italiana. Erano anni in cui era diventata una scelta quasi obbligata per un intellettuale coniugare studio e verifica sul campo in una città che era diventata inevitabilmente un gigantesco laboratorio sociale. Approfondire i saggi teorici e distribuire questionari davanti ai cancelli delle fabbriche erano le due principali attività dei sociologi.

Gallino non amava le mode intellettuali. Alle narrazioni preferiva i numeri, l’analisi scientifica dei dati, e questo gli ha reso la vita non semplicissima sia negli anni Settanta del Novecento sia in questo primo scorcio del nuovo millennio. Non aveva nemmeno timore di schierarsi. La sua adesione al comitato promotore della lista Tsipras alle elezioni europee è la dimostrazione che il riformista Gallino non era un intellettuale timoroso di sporcarsi le mani. Era invece convinto della necessità di un cambio radicale di sistema, non solo economico ma anche culturale. E per arrivarci non vedeva altra strada se non quella dello studio e della comprensione dei meccanismi sociali. Non amava scorciatoie populiste: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tantivo di salvarsi — scriveva — ogni speranza di realizzare una società migliore dell’attuale può essere abbandonata».

Lo studio ma anche la proposta. Il suo piano per creare lavoro e uscire dalla crisi negli anni difficili dello spread alle stelle è stata una delle rare proposte concrete. Quell’idea di prender- si cura dell’Italia, utilizzare gli investimenti pubblici per creare lavoro, ristrutturare scuole e riparare strade è forse il vero testamento del sociologo che sapeva guardare oltre lo stato di cose esistente.
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Massimiliano Panarari sulla Stampa

La sociologia italiana ha perduto uno dei suoi massimi esponenti. Si è spento ieri a Torino, a 88 anni, Luciano Gallino, professore emerito all’ateneo torinese, la cui opera ha rappresentato un contributo di notevole significato alla sociologia del lavoro e alla teoria sociale più in generale. Nonché intellettuale pubblico rilevante per le vicende della sinistra italiana.

Gallino era nato a Torino nel 1927 e la sua formazione (e forma mentis) si è intrecciata fortemente con l’esperienza dell’olivettismo, che ha rappresentato un modello unico (e specificamente italiano) di relazione tra l’impresa, la società e la cultura. Nel 1956 entrò nell’azienda di Adriano Olivetti, che fu l’incubatrice e il laboratorio di un modo originale di pensare e praticare le relazioni sindacali e il rapporto con il territorio, destinato a pesare profondamente sulla sua metodologia e sul suo pensiero sociologico.

Il giovane Gallino, chiamato dall’ingegner Olivetti, iniziò collaborando con l’Ufficio studi relazioni sociali (una struttura di ricerca che costituiva un unicum nel panorama delle imprese dell’epoca) per passare qualche anno dopo a dirigere il Servizio di ricerche sociologiche e di studi sull’organizzazione, che dipendeva dalla Direzione del personale e dei servizi sociali capitanata a lungo da Paolo Volponi. La stagione olivettiana, per l’appunto, che tanto avrebbe segnato in quegli anni e in quelli immediatamente seguenti la cultura nazionale.

Fu successivamente la volta della carriera accademica, che Gallino intraprese mediante la libera docenza e lo vide transitare per Stanford e diventare poi uno dei punti di riferimenti dell’ateneo torinese. Qui insegnò dal ’65 fino al 2002, e il suo magistero svolse una funzione importante - in un Paese in cui l’influenza crociana e una certa impronta antiscientista e antipositivista avevano condizionato a lungo la cultura mainstream - per l’istituzionalizzazione e la definizione dello statuto epistemologico delle scienze sociali. In particolare nel campo dei modelli di azione sociale e della sociologia economica e del lavoro, di cui ha accompagnato l’evoluzione e i cambiamenti sui piani del mercato, delle relazioni tra i fattori di produzione, della tecnologia e dell’informatica (nelle loro implicazioni sociali) e degli aspetti neurobiologici del comportamento umano.

Gallino ha partecipato attivamente al dibattito pubblico, da editorialista di grandi quotidiani (prima Il Giorno, poi a lungo La Stampa e infine La Repubblica) e combattendo una battaglia delle idee nella quale le sue elaborazioni hanno avuto una vasta circolazione negli ambienti intellettuali progressisti. L’attenzione, negli ultimi anni, per il tema della precarietà lavorativa (come nel testo del 2007 Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità) ne ha fatto un critico implacabile del neoliberismo e della finanziarizzazione del capitalismo (al cui riguardo ha coniato il neologismo «finanzcapitalismo», che ha dato il titolo a uno dei suoi libri più recenti).

Molto ricca la sua produzione editoriale e scientifica, della quale possiamo ricordare come «classici», tra i tanti volumi: Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti, 1946-1959 (1960), l’importante Dizionario di sociologia (1978), Informatica e qualità del lavoro (1983), Mente, comportamento e intelligenza artificiale (1984), Della ingovernabilità. La società italiana tra premoderno e neo-industriale (1987), L’attore sociale. Biologia, cultura e intelligenza artificiale (1987), Sociologia dell’economia e del lavoro (1989). Il suo ultimo libro, uscito da pochissimo, è Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti (Einaudi). Una sorta di testamento.


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Curzio Maltese per il Fatto Quotidiano

Abbiamo chiesto all’eurodeputato Curzio Maltese un ricordo del sociologo Luciano Gallino, morto ieri a 88 anni.

Quando ho sentito a Bruxelles la notizia della morte di Luciano Gallino mi è tornata in mente un’immagine della più bella autobiografia mai scritta, Dei miei sospiri estremi di Luis Bunuel. Verso la fine del libro e della vita, ormai ottuagenario, il grande maestro surrealista, “ateo per grazia di Dio”, racconta un sogno, quello di uscire qualche volta dal cimitero per andare soltanto fino all’edicola, comprare l’ultima edizione e vedere a che punto sia giunta la follia del mondo. Fino agli ultimi mesi, ormai provato dalla malattia, dalle operazioni e dai ricoveri, Luciano Gallino è rimasto un uomo profondamente appassionato al futuro del nostro Paese, dell’Europa, del mondo.

Uno sguardo lungo che ha ispirato le sue ultime opere, per così dire pedagogiche, dove ha cercato di spiegare con parole semplici alle generazioni più giovani quanto stava accadendo nelle società occidentali, in gran parte alle loro spalle. Da molto tempo i fatti si erano incaricati di dare ragione alle sue lucide, chiarissime analisi sull’evoluzione del capitalismo globalizzato e sulle conseguenze catastrofiche di una sballatissima costruzione dell’Unione europea. Nessuno come Gallino, neppure il giustamente celebrato Piketty, ha saputo raccontare in anticipo la follia delle oligarchie dominanti conservatrici, l’utopia negativa di voler rispondere alla crisi più potente degli ultimi ottant’anni, dalla Grande Depressione, con una ricetta ideologicamente opposta a quella del ’29, distruggendo lo stato sociale, imponendo assurde politiche di austerità e svalutando il lavoro e i diritti. Nei suoi saggi e articoli erano annunciati già gli effetti catastrofici che si sarebbero materializzati negli anni, dal declino dei ceti medi alla ricomparsa di masse di poveri nel ricco Occidente, fino al furto di vita e futuro ai danni delle nuove generazioni e al pericolo di veder risorgere un nuovo fascismo in tutta Europa. Si può dire che l’avventura della Lista Tsipras, con tutti i suoi limiti certo, ma anche col merito di aver dato rappresentanza a una cultura di sinistra minacciata di estinzione dal trasformismo renziano, sia nata tutta attorno al pensiero di Luciano Gallino. Nel panorama conformista e provinciale della vita intellettuale italiana, le idee di Gallino erano un’oasi d’intelligenza e coraggio. In un Paese che ama gli anticonformisti soltanto in occasione degli anniversari della morte, si può soltanto sperare che questi meriti non gli vengano riconosciuti fra quarant’anni, come per Pasolini.

Testo raccolto da Giampiero Calapà