Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 09 Lunedì calendario

Così quelli dell’Isis indottrinano i bambini yazidi, destinati a farsi esplodere

DALLA NOSTRA INVIATA
DOHUK (Kurdistan iracheno) Dakhil ha 10 anni. Seduto a gambe incrociate sul materasso con la scritta «buona fortuna», racconta come ha passato l’ultimo anno. «Gli uomini dell’Isis mi picchiavano con i cavi della luce. Schiena, mani, gambe. Ci picchiavano durante l’addestramento e quando non imparavamo bene il Corano, ma anche senza motivo. Dicevano che ci avrebbero mandato a uccidere i miscredenti, gli yazidi e il Pkk. Ci dicevano: diventerete kamikaze». La voce è ferma, le mani a tratti tremano.
È successo in un posto che si chiama Maahad, l’Istituto, una scuola dell’Isis dove Dakhil (nome falso, per ragioni di sicurezza) era stato imprigionato, al confine turco-siriano, con un centinaio di altri bambini yazidi dai 5 ai 16 anni, indottrinati perché combattessero contro il loro stesso popolo. Dakhil è riuscito a tornare in famiglia, che ora vive nel campo profughi di Qadia, Kurdistan Iracheno. Sua zia, vestita a lutto, serve agli ospiti il tè, e sulla mano spicca un tatuaggio: «Kocho, 15 agosto», il nome del suo villaggio e il giorno in cui l’Isis ha massacrato 100 uomini e tratto in schiavitù le donne e i bambini.
La stessa cosa è accaduta nel 2014 in decine di altri villaggi e, tuttora – secondo dati del governo del Kurdistan iracheno – restano nelle mani dell’Isis 1899 donne e bambine della minoranza yazida costrette alla schiavitù sessuale e 1821 maschi (molti bambini). Duemila yazidi sono fuggiti ma per ragazzi come Dakhil, prigionieri delle scuole della jihad, è difficile: sono molto sorvegliate. Se lui è tornato a casa è perché la sua famiglia ha pagato 30.000 dollari – e non sono gli unici. Gran parte di quei soldi finiscono nelle casse dell’Isis.
Davanti al prefabbricato dove vive Dakhil, passa un bambino con la camicia a quadretti, un sorriso sperduto e la mano stretta a quella dello zio. Azad ha 9 anni, è stato appena salvato da una scuola dell’Isis a Raqqa, la capitale del Califfato. «Non voglio viaggiare, non voglio andare da nessuna parte», dice preoccupato alla vista della giornalista. Suo padre è sopravvissuto alla strage di Kocho: i miliziani hanno dato agli uomini la scelta tra la conversione all’Islam o la morte, e tutti hanno optato per la seconda, ma il padre di Azad è riemerso dal cumulo di cadaveri ed è riuscito a fuggire.
Morte ai padri, lavaggio del cervello ai figli. «Tre ore di Corano, otto con le armi, altre sette di attività fisica», così Azad passava le giornate alla madrassa, insieme a una dozzina di altri bambini, alcuni dei quali musulmani. Una divisa militare, un giaciglio d’erba secca. «Sono bravo a sparare, dammi una pistola e ti faccio vedere». L’addestratore era un saudita, Abu Shoq. «Ci mostrava video di decapitazioni. Prometteva che ci avrebbe dato un’arma, un salario e una bomba per farci esplodere in Kurdistan. Ci diceva: “Nessuno di voi tornerà a casa”. Io non piangevo, era vietato. Ma pensavo che l’America sarebbe venuta a salvarmi».
Invece è arrivato Abu Suleiman, un altro miliziano dell’Isis. «Abu Suleiman ha dato 20.000 dollari ad Abu Shoq – continua Azad – Ha detto: “Prendo questo bambino per addestrarlo”. Ma poi si è tagliato la barba e i capelli e ci ha portati in Turchia». Il miliziano aveva una schiava yazida diciottenne che stuprava, spiega il bambino, ma agli occhi suoi era buono. Ha liberato anche la madre e la sorella di Azad, e 17 ragazzini prima di lui.
Operazioni come questa sono organizzate dagli stessi yazidi. Esistono almeno quattro «network di salvataggio»: tre in Siria e uno in Iraq. E in assenza di alcun piano governativo, sono l’unica speranza per chi vuole strappare i propri cari alla schiavitù del Califfato. «Abu Suleiman collaborava con me, ma è stato scoperto e alla fine è scappato», ci racconta Abu Shuja, quarantenne yazido che incontriamo nel suo appartamento a Dohuk. Commerciante e contrabbandiere (macchine agricole, sigarette e pecore), dice di aver usato i suoi contatti per salvare 380 donne e bambini. Lo aiutano spie e infiltrati nel Califfato (spesso sunniti ostili all’Isis), correndo rischi enormi.
C’è chi, come Khaleel Al-Dakhi, avvocato yazido a Dohuk, dice di rifiutare di pagare: si mette in contatto con gli ostaggi e li aiuta a scappare, con amici locali che li portano oltre confine. A volte sono i prigionieri a trovarlo: è il caso di un bambino di 7 anni che ruba il telefonino e, dal bagno, manda a Khaleel messaggi vocali in curdo. Il suo network ha liberato 120 ostaggi in Iraq, ma con i bambini delle scuole jihadiste è più difficile: senza pagare, Khaleel è riuscito a salvarne tre.
Gli yazidi convertiti a forza, le donne stuprate: le autorità religiose dichiarano che tutti verranno riaccolti nella comunità. «Ma ci bambini che tornano indottrinati», ci spiega il custode del tempio di Lalesh, Baba Chawish. Nel campo di Kabartu un bambino di 5 anni travestito da Batman spara a tutti con un kalashinov di plastica. «I jihadisti gli avevano dato una pistola e dei coltelli – racconta la madre —, ordinandogli di uccidere i miscredenti. L’altro giorno al mercato mi ha chiesto di comprargli questo fucile per uccidere l’Isis».