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 2015  novembre 08 Domenica calendario

Alessandria d’Egitto, una Nizza decaduta

Amata Alessandria! Ho dovuto andare così lontano da te per capirti”. Il Quartetto di Lawrence Durrell ha una copertina di sabbia, che tempestosa si alza a oscurare le palme dell’oasi. L’edizione è del 1962, Faber and Faber, trovata usata in perfette condizioni su Amazon, giacché nuova era irreperibile in qualsiasi libreria e lingua. La sfoglio in Europa: Justin, Balthazar, Clea, la marea che sale, la città che appare e scompare, ogni memoria è illusione, ogni racconto è verità.
Il treno partiva alle 10.05, ma ero arrivato alla stazione del Cairo con un’ora d’anticipo. Il traffico avrebbe potuto essere tale da bloccarmi e mi ero cautelato. Trascorrevo l’attesa al bar tra nubiani in livrea, valige di cuoio allacciate con grandi fibbie e bicchieri di tè con tre foglie di menta e quattro cucchiaini di zucchero. I mendicanti facevano ressa sulla soglia. Fuori, la folla ricordava un assalto al palazzo, ma erano lontani i giorni di piazza Tahrir, era soltanto umanità aggregata. E nemmeno la metà doveva prendere un treno. Il mio, per Alessandria, era in ritardo. Sollevai lo sguardo alla parete e vidi qualcuno che conoscevo, proprio là, appeso. Inconfondibile il suo tratto: Valerio Adami, uno dei pittori che più amo. Giallo acido, verde acqua, rosso vino. Un uomo con il fez e la tunica appoggiato alla bicicletta sullo sfondo delle piramidi. Il cielo inscritto in un tunnel sormontato da due sfingi e la scritta “Wagon lits”. Era un manifesto pubblicitario realizzato per la compagnia di viaggi in carrozza letto, quando esistevano. Stupendo. L’avrei voluto. Il cameriere intercettò il mio sguardo. In Africa ti abitui all’idea che tutto sia possibile, basta pagarlo. Gli indicai il poster incorniciato, con un gesto in aria lo staccai dal muro e me lo misi sottobraccio, accennai una cifra. Lui la raddoppiò. Inevitabilmente ci incontrammo a metà strada.
Mi chiese dove andassi.
Aleskandrìa.
Hotel?
Cecil, mentii.
Domani sera, nella hall, vedrai una persona con il quadro impacchettato, avvicinati, lasciagli i soldi e prendi il quadro.
Affare fatto.
Non l’avrei fatto mai, già lo sapevo.
Salii sul treno, una coloniale bellezza. Arrivai ad Alessandria e me ne innamorai. Era Nizza decaduta, ma Nizza non sarebbe mai stata così bella, anche senza decadere. C’erano fotografie che la mostravano ai tempi dello splendore, senza capire che il presente era l’unico splendore possibile e vero. Ogni parallela che si allontanava dal mare scendeva di grado: come vedere una donna invecchiare incrocio dopo incrocio. Non ero al Cecil, ma in un altro albergo, sul lungomare, una bellezza sfiorita con camere enormi e disadorne, riempite di luce, sbreccati i muri, sporchi gli asciugamani, ma questo lo preannunciava la Lonely Planet e allora se il cliente già sa, perché fare la fatica di cambiarli? Bagno in comune al piano, ma ero l’unico residente del mio ed era come avere un appartamento, e trovare, in fondo al corridoio, una stanza con la vasca, una grande finestra rotonda che inquadra il mare, oblò di una nave affondata in porto.
Alessandria è un’idea della vita, più lenta e plausibile. In ogni altra città del Medio Oriente scorre la tensione, qui giace, estenuata. Puoi ammirare la fine delle giornate, concederti sogni a buon mercato, far congetture sulla tua sparizione. Ho passato ore leggendo libri sbagliati, scrivendo storie senza futuro, respirando narghilè in caffè per soli uomini. O per uomini soli, aggrappati alla zattera dell’ovvio, delle idee rassicuranti perché rimasticate da predecessori e compresenti. Amrikìa pronunciata con disprezzo, Masr (Egitto) con amore, Israele in nessun modo, senza un nome, l’entità sionista. Fare notte così, stordendosi di tabacco alla mela, che come ogni cosa orribile viene resa passabile dall’abitudine o dall’assenza di alternative: ognuno arreda la propria galera e poi s’impone di amarla. Un tavolino, una sedia, manca solo un quadro.
La sera seguente mi presentai nella hall del Cecil, ma con un cappello e in posizione defilata, per vedere chi mi avrebbe portato la presunta refurtiva. Di una cosa ero certo: dentro il pacco ci sarebbe stata una cornice vuota o con la prima pagina dell’edizione mattutina di Al Ahram. Arrivò un tizio con il fez, immagino per far notare la somiglianza con il quadro. Confabulò con il portiere, si sedette sul divano nella hall senza guardarsi intorno, aspettando. È peggio farsi fregare o non sapere mai se si avrebbe invece vinto la lotteria? Anni dopo l’originale di quel manifesto (o la copia?) fu battuta all’asta a Parigi per 18mila euro. Al cambio di allora ne avevo offerti novanta. Speriamo sempre di fare un colpaccio, mai che ci basti cavarcela, tornare a casa vivi, senza niente sottobraccio. Ricordo perfettamente quel manifesto, me lo appendo davanti agli occhi ogni volta che lo desidero, con gli stessi colori. Come ricordo Alessandria, ma risalendo verso il mare, vedendola ringiovanire a ogni incrocio, bella, fuggevole, trascorsa. È così che non si muore mai. Ho dovuto andare lontano, per capirlo.