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 2015  novembre 08 Domenica calendario

Daniele Silvestri non è più un ragazzo

ROMA.
Non è più un ragazzo, anche se la percezione che molti hanno è che sia eternamente giovane, da sempre l’ultima leva della canzone d’autore italiana, nonostante i successi (da Cohiba a Salirò), nonostante gli album alle spalle (sette dal 1994 a oggi), nonostante i tour, i video, insomma nonostante sia uno dei migliori cantautori italiani. Perché Daniele Silvestri è uno che sa scrivere e cantare, e che gode di una straordinaria stima da parte dei colleghi. «Non so se mi merito tutto questo», dice sorridendo e con l’aria timida che ha sempre, persino quando è in scena – ed è come se cercasse il punto d’ombra nel quale coprirsi un po’ per poter cantare in santa pace.
Ventuno anni di musica alle spalle, in una costante ricerca di un punto d’equilibrio, di una chiave di lettura del mondo, della vita, passando per grandi canzoni e piccoli club, festival di Sanremo e teatri, Daniele Silvestri, classe 1968, romano, nel suo lungo viaggio è ora a un punto di svolta. Un nuovo album che sta per concludere e che risponde a uno spirito di rinascita. «Sono andato in studio, a Lecce, assieme a un gruppo di musicisti che ho scelto per le loro eccellenti doti e a un iPhone pieno di idee musicali, alcune strutturate, altre solo abbozzate», racconta. «Ci siamo chiusi dentro senza sapere cosa avremmo fatto, i musicisti non avevano mai sentito le canzoni. È stata un’esperienza fantastica, la musica era viva davanti ai miei occhi…». Un nuovo inizio. Il Daniele Silvestri del 2015 è un uomo più maturo, rilassato, cosciente delle sue qualità ma anche pronto a cogliere senza esitazioni le occasioni, le possibilità, che il futuro può offrire. Maturità? «Forse, non c’è dubbio che le vicende personali contino molto nelle scelte di ogni persona, perché non dovrebbero contare per me? Sono padre tre volte, con due famiglie diverse e con gli obblighi che tutto questo giustamente comporta: non è che posso mollare tutto e andarmi a chiudere in studio per scrivere o suonare, e quindi quando ottengo a fatica questi spazi, questo tempo, forse gli do un valore che prima non gli davo. Diciamo che l’inafferrabilità che avevo un tempo forse non mi sta addosso più allo stesso modo. E poi diciamo anche che cominciavo a provare una certa stanchezza nei confronti del mio mestiere, della cosiddetta forma canzone. Mi sembrava insomma di essere arrivato a un punto in cui avevo detto tutto quello che c’era da dire e che non potessi andare oltre. Nella mia vita ho depositato circa duecento canzoni, temevo che avrei cominciato a “essere Daniele Silvestri” rispondendo più a un cliché che a una necessità. Ecco, oggi posso dire che è non andata così».
A contribuire in maniera determinante a questo cambio di passo è stata l’esperienza con Max Gazzè e Niccolò Fabi che ha dato vita a un album splendido, Il padrone della festa, e a uno splendido tour. «Un’esperienza bellissima, al di là delle nostre stesse aspettative. Non pensavamo di poter arrivare così lontano, confrontarsi costantemente restando ciascuno sempre se stesso, condividere due anni di vita artistica. E poi alla fine è arrivata la musica, è stata lei ad avermi richiamato, e lo ha fatto con forza». Detta così potrebbe anche suonare strana, ma Silvestri è davvero uno di quei pochi artisti italiani a essere realmente posseduto dalla musica. «È diventata parte essenziale della mia vita quando avevo sette, otto anni, e da allora non ha mai smesso di essere il gioco più bello, la passione più resistente. La musica ma anche le parole, cioè il racconto, l’infinito gioco delle rime, l’invenzione... Fortunatamente continuo ad avere bisogno di poche ore di sonno per stare bene. E chi mi sta accanto ha imparato a riconoscere i momenti in cui il mio sguardo si perde completamente dietro un’idea, un pensiero, un’intuizione... e in quei momenti mi lasciano tornare ad avere i miei sette, otto anni. Oggi, poi, so che non devo essere ma che posso essere, il che mi lascia una straordinaria sensazione di libertà. Mentre prima mi sentivo in qualche modo obbligato a essere puntuale nel mio rapporto con il mio tempo, adesso penso che ci siano molti modi per essere in sintonia con la realtà senza necessariamente dover commentare l’ultimo fatto di cronaca». È L’uomo col megafono che scompare? «Ma no, la mia attenzione per le cose del mondo resta intatta. È solo che ho voglia di fare cose nuove rispetto al passato».
Nostalgico Silvestri non lo è mai stato, però la memoria conta molto nel suo percorso sempre rivolto al futuro: «Da bambino avevo un insegnante di pianoforte che sapeva tutto dei computer musicali, e così mentre i miei erano convinti che andavo a fare solfeggio io ero diventato il ragazzo di bottega in un mondo tecnologico fantastico». Queste due anime sembra che oggi abbiano trovato un nuovo equilibrio: «Seguo ancora il consiglio di mio padre, “butta la prima cosa che hai scritto”, e poi ci lavoro su. Ho avuto un padre meraviglioso, quasi perfetto come genitore, per la capacità mai venuta meno di farmi sentire contemporaneamente amato e rispettato, protetto e liberato, farcito di stimoli e insegnamenti e costantemente invitato a trovare da solo i miei. Probabilmente non sono altrettanto bravo con i miei figli, ma quell’esempio così luminoso continua a guidarmi anche in questo mondo così diverso e complesso rispetto a quello in cui crescevo io. Forse anche per questo non ho mai dubitato, già da ragazzo, che prima o poi sarei diventato padre anch’io. Ci sono popoli e culture del passato, o ancora esistenti in alcune zone dell’Africa e del centro- America, in cui è prassi consolidata e inamovibile che a prendere decisioni per la comunità possano essere solo persone che hanno figli. Perché sono quelle che più sapranno guardare al bene della comunità stessa. Qualcosa vorrà pur dire, no?».
Silvestri rappresenta in maniera limpida cosa può essere oggi un artista immerso in un mondo in costante cambiamento, in un’Italia sempre in bilico, convinto che le canzoni siano importanti e che si possa essere «impegnati» e «leggeri», intrattenere facendo possibilmente ragionare. Ma è davvero ancora possibile per un artista oggi essere libero? «Domanda difficile, ma d’istinto mi viene da rispondere di sì. Anzi, forse oggi più che mai, visto che sono saltate tutte le regole, vuoi per la “svalutazione” economica della parte discografico- aziendale di questo mestiere e vuoi per il crescere esponenziale dei sistemi di produzione e diffusione dell’arte in genere grazie alla rivoluzione delle tecnologie che hanno buttato all’aria barriere geografiche, linguistiche, culturali. Semmai, come spesso accade, tanta libertà non coincide con la capacità di usarla, e soprattutto con l’esigenza di usarla. Quando ci si deve battere per la libertà, si diventa rivoluzionari. Quando invece è già disponibile si finisce spesso per inseguire – magari inconsapevolmente – l’omologazione. Probabilmente un artista deve essere capace di continuare a battersi, anche se la guerra non è più sociale ma quasi intima. Se guardo a me stesso, non posso non prendere atto del fatto che gli anni che avanzano e una professione che si consolida e che mi dà mezzi per vivere e contratti da rispettare, possono diventare una zavorra. L’incoscienza e la vitalità del primo disco forse non potranno più tornare. Però continuo ad amare e a inseguire l’inatteso – che poi riesca a raggiungerli oppure no questo è tutto da vedere. Però diciamo che se per caso mi trovo a un bivio in cui a destra si va verso “sicurezza e comodità” e a sinistra verso “rischio e imponderabilità”, beh di solito imbocco la seconda. E credo proprio di averlo fatto anche questa volta».