Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 08 Domenica calendario

Quattro chiacchiere con Viggo Mortensen

MADRID.
Viggo Mortensen non passa inosservato. A cinquantasette anni ha un fisico impeccabile, messo in risalto da una camicia a quadri a maniche corte e da un paio di jeans. Parla piano, quasi sussurra. All’inizio si presenta serio, perfino un po’ antipatico, ma è solo un meccanismo di difesa. Al riparo dagli occhi dei curiosi prepara il suo mate (ha tutto il necessario in una busta di plastica), si accende una sigaretta e si trasforma subito in una persona cordiale e disponibile alla chiacchierata, più preoccupata dell’attualità di Camus o della deriva totalitaria del Venezuela che delle «sciocchezze» che circondano il circo mediatico hollywoodiano. Attore, certo, ma anche pittore, fotografo e editore, vive dedicandosi alle sue molteplici attività culturali. Alle quali si aggiunge la sua passione per il San Lorenzo de Almagro, squadra di calcio di Buenos Aires che segue in tutto il mondo.
Come attore Viggo Mortensen si è conquistato prima il rispetto della critica e poi quello del grande pubblico che lo ha scoperto come Aragorn, il capitano dei Raminghi del Nord nella trilogia de Il Signore degli Anelli; dopo sono venute le straordinarie interpretazioni in A History of Violence e ne La promessa dell’assassino, entrambi diretti dal canadese David Cronenberg che ha saputo vedere in lui un attore capace di infiniti registri, compresa una terza collaborazione in A Dangerous Method dove interpreta Sigmund Freud, un personaggio nel quale, almeno all’inizio, dice, non riusciva proprio a vedersi: «Cronenberg cambia così tante volte registro da avere a volte seri problemi di finanziamento semplicemente perché i produttori ne hanno paura mentre lo dovrebbero promuovere e fargli fare almeno un film all’anno. Come Woody Allen. Con lui non ci si rimette mai».
Parliamo della difficoltà di accedere ai finanziamenti. Con il suo ultimo film, “Far from Men”, adattamento di un racconto di Albert Camus diretto dal regista David Oelhoffen (e non ancora distribuito in Italia, ndr), lei fa un ulteriore passo verso il cinema cosiddetto indipendente. Prima aveva girato “Jauja”, poi “I due volti di gennaio”: due film che se hanno avuto molto successo nei festival certamente poi non hanno sfondato al botteghino.
«Questa successione è una pura combinazione, ma riconosco che ci sono maggiori possibilità di trovare una buona sceneggiatura nei piccoli film. I grandi studios in genere rischiano di meno, soprattutto se ci sono molti soldi in gioco».
Lei ha raccontato che quando cominciò, nelle prime audizioni, con quegli occhi chiari veniva sempre preso per le parti del “bravo ragazzo della porta accanto”. Eppure nella sua carriera praticamente non ci sono commedie. Come si è ribellato a questa immagine?
«A me è sempre sembrato che, parlo in generale, nelle sceneggiature i cattivi e i personaggi un po’ sinistri fossero scritti meglio e quindi anche più interessanti da interpretare. Il problema, appunto, è che i registi in quei ruoli non mi ci vedevano. Almeno finché non ne interpretai uno e non lo interpretai bene. Fu una specie di sfida, per me stesso e per i produttori».
Quanto la sua carriera è stata condizionata dal fatto che lei sia bello?
«Non lo so, non ci penso molto, sicuramente la bellezza ti aiuta a trovare lavoro. Poi entrano in gioco altre cose. La personalità, il mercato e, appunto, il successo che hanno avuto i tuoi film al botteghino».
Si dice che a lei piacciano i registi capaci di parlare sul set, quelli che non si sentono minacciati dalle domande degli attori. È vero che lei chiede e interviene molto, cercando di portare delle idee sue durante le riprese di un film?
«I registi sono i comandanti della nave, ma il cinema è un lavoro collettivo. David Oelhoffen, Díaz Yanes o lo stesso Cronenberg sono persone intelligenti, si esprimono bene, conoscono la letteratura e la storia, non si sentono in alcun modo obbligati a far vedere chi comanda e quindi ti danno energia e fiducia, e rispettano la tua personale ricerca rispetto al personaggio che devi interpretare».
Prima delle riprese di “Far from Men”, conosceva bene Camus?
«Abbastanza ma non avevo mai letto i suoi scritti giornalistici degli anni Trenta, di quando viveva in Algeria, né le sue lettere ad altri scrittori. È stato molto interessante conoscerlo meglio e immaginare che cosa faceva e cosa pensava, cercare il suo lato umano rispetto al personaggio ostinato e isolato del suo racconto».
Di Camus cosa la attrae in modo particolare?
«Diceva che bisogna scegliere costantemente, ma senza farlo in modo ideologico. Non temeva di diventare amico dei suoi nemici pur di andare in fondo alle cose. C’è ancora una minoranza nella sinistra francese che non gli perdona di aver criticato Stalin. I seguaci di Sartre o di Simone de Beauvoir lo punirono molto ingiustamente per motivi politici, e credo anche per una certa gelosia. Era molto popolare, e viveva la sua vita senza chiedere il permesso di pensare o di cambiare idea. Una volta disse: “Sono comunista, ma certe cose non le posso accettare”. Avrebbe detto lo stesso di Cuba se ne avesse avuto il tempo o, oggi, del Venezuela. Non ricordo le parole testuali, ma diceva che la democrazia non si può basare sui vantaggi del totalitarismo. Osò dirlo e non glielo perdonarono. Non si può ricorrere alla storia per giustificare ciò che accade in ogni momento, come quando Chávez cominciò a chiudere le reti televisive: lì ebbe totalmente torto, per quanto potesse avere ragione riguardo all’imperialismo americano. Quando cominci a usare la censura non hai più ragione, è successa la stessa cosa con Fidel Castro».
Lei è un attore politicamente impegnato. Che cosa la preoccupa di più del mondo in cui vive?
«La calcificazione ideologica mostrata dall’attuale discorso politico. Nonostante le possibilità di imparare e di comunicare meglio grazie al mondo digitale, vedo una durezza nei punti di vista senza essere motivata da un vero discorso. Viviamo nell’epoca più ricca di informazioni della Storia, ma continuiamo a non sapere la verità sulle cose. Tanto i giornalisti che la gente con il proprio computer cercano risposte facili, punti di vista con cui semplicemente continuare ad alimentare le proprie posizioni. Sono appena tornato dagli Stati Uniti, ho viaggiato molto in macchina e il novantanove per cento delle cose che senti alla radio sono le argomentazioni di una destra assurda che, tanto per fare un esempio, ancora nega l’esistenza di un problema climatico o il fatto che oggi in America ci sia un conflitto razziale. Dicono ancora che Obama non è americano».
Lei è una vera miscela esotica. Nato a New York da madre americana e padre danese, ha vissuto in Danimarca, Stati Uniti e Argentina e da alcuni anni nel centro di Madrid. Dove si sente più a casa?
«In realtà né in Danimarca, né a New York e né qui ho particolari rapporti. Diciamo che mi trovo bene con la gente che frequento, ma non sono un tipo molto festaiolo, non partecipo alla vita mondana. Conosco delle persone, vado a trovarle, andiamo a teatro o ci si vede per strada, tutto qua».
Una volta diventato Aragorn ha dovuto fronteggiare i paparazzi americani, per fortuna senza mai dover ricorrere alla spada come nei suoi film. Ora accade la stessa cosa con quelli spagnoli, ansiosi di immortalarla accanto all’attrice Ariadna Gil, con la quale ha una relazione iniziata durante le riprese de “Il destino di un guerriero” e che ha tutta l’aria di essere una grande storia d’amore.
«Effettivamente non do molta soddisfazione ai paparazzi, ormai non trovano più neppure molto interessante quello che faccio, se scendo a comprare il pane, o che ne so, se vado dal veterinario. Alla fine si stancano anche loro, e mi lasciano in pace a fare la mia vita privata».
Pur vivendo lontano migliaia di chilometri da suo figlio Henry, frutto della sua relazione con la cantante Exene Cervenka, leader del gruppo punk X, Mortensen riesce a mantenere con lui un rapporto costante. Negli Stati Uniti, da cui è appena tornato, ha visto un suo documentario sugli Skating Polly, una band punk dell’Oklahoma («sono due fratelli con genitori diversi che hanno fatto il loro primo disco quando avevano dieci e quattordici anni»), e tra qualche giorno si rimetterà di nuovo in viaggio oltre l’Atlantico. Non è uno che ama stare con le mani in mano. Ama viaggiare e fare fotografie dei luoghi che visita. Parte di queste istantanee, scattate in diversi posti del mondo, sono state pubblicate da Percebal, la casa editrice con sede a Santa Monica che dirige con pugno di ferro e che propone anche libri sulla musica, sull’economia e sul cambiamento climatico. Come pittore cerca l’astrazione, come fotografo predilige i ritratti o i particolari delle persone, ma è sempre particolarmente attento alla natura e ai panorami solitari con uno sprazzo di luce. Spesso li accompagna con brevi testi, o poesie. Tipo questa: “Ho volato di notte / e mi ha scosso non trovarti / mi manca la tua luce / l’aria intorno a te che salva e cura / ho la barba / ti avverto / mi colma sapere di te / voglio che tu lo sappia / respiro con te / conservo le carezze che mi hai dato / e ho voglia di ridartele”.
Lei non ha mai voluto interpretare i panni del supereroe. Preferisce essere una persona normale?
«Le star sono un prodotto del mercato che vende attori e film. Mi sembra una cosa noiosa. Ci sono attori e attrici che hanno un grandissimo talento, degli autentici artisti, ma quando apro una rivista o accendo la tv e li vedo vendere orologi o profumi, beh questo distrae tanto dal lavoro quanto dall’arte. E poi alla fin fine devo dire che sono stato molto fortunato. Per dire: se Far from Men fosse il mio ultimo film sarei soddisfatto. Impari solo quando accetti le sfide, e quando interpreti dei personaggi che comportano una sfida».