Corriere della Sera, 8 novembre 2015
Buzzati aveva otto cani e uno di questi, da cucciolo, era una via di mezzo «fra l’ippopotamo, la cornamusa, il baule e gli angiolini di Raffaello Sanzio»
«Ha appena compiuto tre mesi e sta fra l’ippopotamo, la cornamusa, il baule e gli angiolini di Raffaello Sanzio. Chi lo vede ne resta attanagliato. Arriverà molto, ma molto in alto, lasciatemelo credere». Così, in un brano inciso per la Rai nel 1959, Dino Buzzati presentava il suo cane Cicci, un bulldog «nero mogano» proveniente da un allevamento inglese. All’inizio lo scrittore non era intenzionato all’acquisto («In casa ho altri due cagnozzi e per un terzo non c’è assolutamente posto», aveva risposto a chi glielo proponeva); ma poi cambiò idea, soprattutto dopo aver visto le foto che ritraevano il cucciolo. «Si tratta effettivamente di una creatura celeste. Non vedo l’ora che sia arrivato in buona salute. Unico inconveniente sarà che nei primi giorni, trovandosi con i miei cani, l’angiolino che parla inglese si troverà imbarazzato. I miei parlano soltanto un dialetto strettissimo».
Questo episodio personale rispecchia e riassume bene il rapporto di Dino Buzzati con i cani e più in generale con gli animali. Un rapporto stretto, intimo, di rispetto e di cuore; basato e sviluppato su un’intesa profonda, che cresce e si consolida con il passare degli anni. Tanto a livello personale che letterario. Se infatti la sua vita, dal secondo Dopoguerra in poi, è stata scandita e accompagnata dalla presenza degli otto, amatissimi cani, dall’altra gli animali sono fin dall’inizio dell’attività di scrittore una presenza forte (e in alcuni casi centrale) della sua narrativa dove si comportano spesso da veri e propri personaggi. Come uomo, Buzzati sa coglierne e sentirne quelle qualità – dalla dolcezza alla devozione, dalla fedeltà alla purezza, dallo spirito di sacrificio alla vulnerabilità – che ne fanno dei compagni prediletti, degli esempi di comportamento cui ispirarsi e dai quali imparare; come scrittore se ne serve per evidenziare ed esaltare le nostre contraddizioni e i nostri difetti – la meschinità, la crudeltà, l’egoismo con cui spesso li trattiamo —, ammonendoci e invitandoci a riflettere sul bene e sul male, e su quella arroganza che spesso porta l’uomo a ritenersi un essere superiore.
Lo dimostrano gli scritti – racconti, elzeviri, articoli di giornale, introduzioni a libri – che attraversano la sua vita in un arco di tempo che va dal 1932 al 1970, oggi raccolti nel cofanetto Il «Bestiario» di Dino Buzzati (due volumi, Oscar Mondadori) che aiuta a ripercorrere (e ricostruire) la relazione dello scrittore con il mondo animale, anche attraverso vicende personali. Accendendo così una luce su un aspetto poco trattato del Buzzati uomo, che appare come un animalista ante litteram, con uno spiccato senso etico e morale e una sensibilità mista a tenerezza difficile da immaginare dietro al suo rigore di stampo ottocentesco.
Si possono distinguere due periodi nel rapporto dell’autore del Deserto dei tartari con gli animali. Il primo, giovanile, durante il quale la sua empatia nei loro confronti e i suoi sentimenti «zoofili» – come si diceva allora – non sono ancora sbocciati, tanto da portarlo a dedicarsi con soddisfazione alla caccia. Il secondo, legato alla maturità, durante il quale il suo atteggiamento cambia radicalmente e lo porta a instaurare con le creature delle altre specie un legame stretto e intenso, schierandosi per la loro tutela. Su questa presa di coscienza, affiancata da un trasporto affettivo che diventa negli anni sempre più forte ed esplicito, pesano da un lato la Seconda guerra mondiale, che lascia in lui ricordi, paure, esperienze che cambiano il suo personale sguardo sulla vita; e dall’altro i primi contatti ravvicinati con i cani, la prima convivenza diretta con loro. Grazie anche alla relazione con Carla Marchi (la donna conosciuta a Messina che alla fine della guerra riuscì a rintracciare e a far trasferire a Milano) con la quale divide la gestione dei suoi boxer e barboni.
Durante questo periodo – siamo negli anni Cinquanta – non c’è lettera o cartolina che Buzzati le spedisca senza una richiesta di informazioni sui «cagnolini», un saluto, un pensiero, una battuta; senza che li ritragga a matita e a colori. Come un padrone affettuoso e premuroso. Contemporaneamente gli animali – cani, orsi, topi, ma anche esseri immaginari come il Babau o il Drago – entrano di riflesso nel suo mondo creativo, nei racconti, negli articoli e, in seguito, nei dipinti dove Buzzati li ritrae, li ingigantisce, li indaga, li radiografa, li inventa, li trasforma. Diventano il soggetto delle sue storie, lo spunto per riflessioni più ampie, per toccare i temi della sua poetica: il precipitare del tempo, la solitudine, l’ignoto, il mistero, la morte.
Per Buzzati sono una parte fondamentale dell’universo (sia reale che fantastico) e della nostra vita; sono compagni fedeli e ideali; creature, e non «cose», che mai andrebbero maltrattate, fatte oggetto di esperimenti, piegate ai nostri capricci, ai bisogni materiali. «Tu morrai in crudele solitudine senza sapere di essere un Eroe della Storia, un Simbolo del Progresso, un Pioniere degli Spazi», scrive a proposito di Laika, la cagnetta spedita in orbita nel 1957 sulla capsula russa Sputnik 2: «Ancora una volta l’uomo ha approfittato della tua innocenza, ha abusato di te per sentirsi ancora più grande e darsi un mucchio di arie».
Il suo ultimo cane, Diabolik, gli sopravviverà. Un segugio di razza basset hound con il manto di tre colori che Dino Buzzati aveva regalato alla moglie Almerina, per lasciarle un ricordo di sé quando non ci sarebbe stato più.
Molti anni prima aveva scritto: «Un giorno mi è stato chiesto: “Qual è il cane più bello del mondo?”. Io ho risposto: “Il cane più bello del mondo è il mio, perché a differenza di tutti gli altri animali, compresi perfino i maiali che sono persone di alto cervello, compresa la maggior parte degli uomini, la bellezza del cane è essenzialmente spirituale, e non fisica. È un fatto dello spirito, e tu la riconosci negli occhi del cane che ti fissa, precisamente il tuo cane, non nella sagoma più o meno elegante, o nella morbidezza del pelo, e neppure nello stile delle movenze, bensì nello sguardo terribile, tenero e profondo di quella creatura che ha bisogno di te, che si trova bene con te, che ti ama sopra ogni cosa al mondo – perfino più degli ossi di bue – e che di tanto in tanto ti trasmette il messaggio di un mondo a noi sconosciuto”».