Libero, 7 novembre 2015
Ritratto un po’ cattivo del ministro Franceschini
Contrariamente alla voce di un imminente voltafaccia, i bookmaker danno il pd Dario Franceschini saldamente ancorato al governo e al premier Matteo Renzi. Il dubbio era sorto quando, dopo un periodo di ferreo allineamento al Gabinetto, il ministro dei Beni culturali prese le distanze dall’innalzamento del contante a tremila euro. Udita con sgomento quella critica, il pensiero corse spontaneo alle passate giravolte di Dario e si temette il peggio. Falso allarme, se Dio vuole.
Il cinquantasettenne Franceschini attraversa un periodo d’oro che contribuisce alla sua stabilità. Da giugno, è padre di Irene, delizioso batuffolo che corona il recente matrimonio con la trentacinquenne Michela Di Biase, sua compagna di partito e seconda moglie. La bimba, comparsa come un dolce frutto autunnale, si è aggiunta alle due figliole che Dario ebbe negli anni verdi da Silvia Bombardini, bellezza ferrarese impalmata in prime nozze. Il matrimonio, felicemente durato diversi lustri, si è poi spezzato nel 2010 causando in Franceschini, unito all’incontro con il nuovo amore, una metamorfosi estetico- antropologica. Innanzitutto, si è fatto crescere un’ispida barba nera, in netto contrasto col precedente viso glabro e quasi fanciullesco, che gli ha conferito un grugno da icona bizantina. Inoltre il suo carattere, da dispettoso e malignetto – della scuola di Rosy Bindi, per intenderci -, si è fatto serio e austero. La prova del cambiamento si ha ogni giorno nella sua attività di ministro, tanto più egregia e positiva, quanto raffazzonata e inutile era stata la sua precedente carriera di politico puro.
Ai Beni Culturali, Dario non ha portato, per fortuna, un’aria nuova – che è l’elogio supremo che in genere si fa ai ministri per compiacerli – ma ha sfruttato le energie esistenti. Appoggiandosi alla struttura, ha rianimato il settore. Poi, con consumata capacità autopromozionale, ha riempito di sé giornali e tv. Sarò un allocco, ma a me la sua idea di sfruttare le 1600 case cantoniere per farne ostelli e punti d’appoggio per itinerari alternativi al solito turismo, piace da matti. Ho sempre adorato gli edifici rosso pompeiano con la scritta Anas, spersi nei boschi appenninici lungo le vecchie Statali dimenticate. Restituirli alla vita, facendone punti d’appoggio per le saghe del prosciutto o le fiere del tartufo è un tocco di genio. Magari resterà – com’è più che probabile – una pura fantasia. Ma intanto ci ha fatto sognare. A quanti altri ministri siamo debitori di un sogno?
C’è poi quell’altra genialata dei Caschi Blu della cultura. Qui, Franceschini ha superato la dimensione strapaesana, assumendo veste universale. Commosso alla vista di Palmira, la città siro-romana distrutta dai bruti dell’Isis, ha immaginato la costituzione di una Forza armata onusiana di pronto intervento per salvare i patrimoni culturali dell’umanità. La fantasia creativa del ministro non si è lasciata imbrigliare dal fatto che l’Onu non ha mai deciso nulla. Incapace di intervenire per proteggere vite umane e interi popoli minacciati di estinzione, figurarsi se appronterà mai una spedizione per fare scudo a un paio di colonne e qualche manoscritto. Ma è proprio questo irrealismo del Nostro che trovo irresistibile. Quale altro ministro ci ha mai ispirato un’utopia?
Mi fermo qui. Troppo lunga sarebbe la rassegna delle variegate iniziative franceschiniane. Dagli sgravi fiscali per i mecenati che adottino opere d’arte, alla penalizzazione degli over 65 in favore degli adolescenti per l’ingresso gratuito dei musei. Operazione, quest’ultima, a doppia faccia: idealista perché favorisce i virgulti che si schiudono ai piaceri della cultura e che nelle gallerie si affacciano con parsimonia; furbissima poiché nei musei fanno capolino quasi solo attempati, oggi paganti, con grande vantaggio dell’erario. È dunque a questa fase aurea che si deve l’attuale lealtà di Dario, in contrasto con la fama di volatilità e a dispetto delle critiche al governo. Pare anzi che l’uscita sul contante sia frutto di un accordo, con altri volponi renziani, per rubare elettorato al Cav. Ricorderete che Franceschini nel rivelare, durante una trasmissione, la sua contrarietà ai tremila euro, aggiunse che a insistere nel volerli era stato Angelino Alfano. Cosa che il leader di Ncd ha confermata all’istante, sbandierandola come prova dell’influenza libertaria che il suo gruppo esercita nel governo di sinistra. Col presumibile effetto di rafforzare, agli occhi dell’elettorato moderato, il centrodestra schierato con Renzi a spese del Berlusca. Esattamente l’effetto che Dario voleva raggiungere con l’esternazione.
Tuttavia, il fatto che Franceschini stia a piè fermo nel governo indica pure – come un termometro di precisione – che la leadership Renzi è salda, forte e intatta. Se solo scricchiolasse, Dario avrebbe già dato una spazzolata alle ali preparandosi al salto della quaglia verso un nuovo potere emergente. Ha sempre fatto così con una tempestività senza confronto sulla scena politica nazionale.
Ferrarese, figlio di Giorgio, deputato dc di tutt’altro temperamento e anticomunista, Dario col rosso emiliano ha invece profittevolmente convissuto sia pure da cattolico di sinistra. Con la Dc ancora in vita, suo mentore fu Ciriaco De Mita che lo infilò giovanissimo nel collegio sindacale dell’Eni. Sparita la Dc con Tangentopoli, divenne, insieme a Enrico Letta, vice di Franco Marini, segretario del Ppi (erede della Dc) a metà degli anni ’90. Ma appena sorse l’astro di Romano Prodi, che nel ’96 andò Palazzo Chigi, si allineò con lui e lo difese contro le mire di Massimo D’Alema. Quando però Max vinse, Dario traslocò in giornata e fu sottosegretario del suo governo. Venuto in auge Walter Veltroni, fondatore del Pd, Franceschini gli saltò in grembo e ne fu il successore contendendo per otto mesi la guida del partito a Pier Luigi Bersani. Quando poi Bersani prevalse, capendo al volo che non era il tipo da lasciare l’impronta, mise il dito in aria e spiò il vento. Con l’arrivo di Mario Monti, Dario si sdilinquì: «Difficile immaginare di meglio», ma rimase a bocca asciutta. Si rifece l’anno dopo, 2013, con Enrico Letta, amico di gioventù, che lo nominò ministro dei Rapporti col Parlamento. Appena però intuì che l’amico stava per essere macinato da Renzi ne accelerò la fine. Letta, partendo per le Olimpiadi invernali di Soci (febbraio 2014), si era affidato a Franceschini per frenare i renziani che assediavano Palazzo Chigi. Forte del mandato, il Nostro si incontrò più volte con gli assalitori ma, come scopri Letta al ritorno, anziché tutelarlo ne concordava la defenestrazione per garantirsi il futuro. Il chiarimento tra i due si svolse a Palazzo Chigi e – raccontano le cronache – fu furibondo. Disse Letta: «Ti ho creduto, Dario, quando giuravi che quelle riunioni le facevi per il mio governo. Scopro invece che trattavi per un governo Renzi. Mi hai pugnalato alle spalle». Franceschini si limitò a stropicciarsi la barba, pregustando la poltrona concordata con Renzi, la stessa su cui siede oggi.
Fu quella la definitiva consacrazione della sua inaffidabilità. Ma forse l’inizio, come ho raccontato, della sua resipiscenza.