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 2015  novembre 07 Sabato calendario

Il ricordo del padre morto e le canzoni. Parla Giuliano Sangiorgi (Negramaro)

L’ha scoperto quando il papà non c’era più. Un armadio zeppo di tutti gli articoli sui Negramaro pubblicati a partire dal 1999, datati e archiviati; scaffali e scaffali pieni di raccoglitori. «L’ultima intervista che ha incorniciato era quella sul mio esordio letterario, Lo spacciatore di carne, apparsa sul Venerdì di Repubblica. Era il mio Wikipedia e non lo sapevo», mormora Giuliano Sangiorgi, leader del gruppo salentino che ha appena debuttato con il nuovo tour, La rivoluzione sta arrivando, dal titolo dell’album uscito a fine settembre, disco d’oro in una settimana. La morte, quando non si fa annunciare, è più dura per chi resta. Gianfranco Sangiorgi se n’è andato nel gennaio 2013 a 62 anni. E al più piccolo dei tre figli non è rimasta altra cura che la musica. «Subito dopo la sua morte ho scritto Il posto dei Santi e Lo sai da qui», racconta in una pausa delle prove, a Mantova. «Mi sono svegliato una mattina, in casa stavamo tutti male, ricordo anche la data, 5 maggio 2013. In genere scrivo al piano. Quella volta invece ho preso la penna e ho buttato giù il testo di Lo sai da qui. Lo do a mia madre, lei inizia a piangere perché in ogni frase c’è lui che ci parla: non bisogna sopravvivere ma vivere! Non posso dire di averlo scritto io quel testo, assonnato com’ero. Il posto dei santi invece mi è venuta in un viaggio da Roma a Brindisi in aereo, stesso periodo».
E continua: «Queste due canzoni mi hanno cambiato. È stato come un vaccino, mi hanno dato tutto il dolore del mondo e tutta la cura del mondo in un’unica soluzione, un antidoto per crescere e rivoluzionare me stesso attraverso quella drammatica esperienza. Mi hanno dato una nuova consapevolezza; non dico che non ho più paura della morte ma ho capito che la morte fa parte della vita, è un suo colore, importante da conoscere e indossare. Queste canzoni hanno compensato l’assenza. Rivedo mio padre nei miei occhi in ogni istante. Guardo le sue foto e mi spavento, il suo volto che un tempo mi appariva diverso ora combacia col mio. Le persone non ti mancano più quando diventano parte di te. Questo mi è successo – mio padre sono io. Ho la fortuna di avere le canzoni per esprimerlo: vivere al massimo (non sopravvivere) è quel che devi alla persona che hai perso. Se tutti rispettassimo la vita come un diamante prezioso, se la vita fosse un valore assoluto, non ascolteremmo bestemmie contro i rifugiati che vanno lasciati alla deriva. Me ne sbatto dei confini geografici, la terra è di tutti, non si può discutere su un passaggio di anime da salvare, non si può discutere su un bambino che muore sulla spiaggia. Bisogna assolutizzare la vita come valore. Quanti problemi si risolverebbero d’un colpo!».
Ha pianto quando Ermanno Carlà, bassista e grafico dei Negramaro, gli ha inviato le bozze dei disegni che aveva realizzato per animare il nuovo show accompagnate da un messaggio: “Ho lottato per realizzare queste costose animazioni perché era un desiderio di tuo padre”. «Infatti lui diceva sempre: un giorno vi vedrò a cartoni», confessa Giuliano. «Gap generazionali? Nessuno. I miei sono stati fin dall’inizio fan dei Negramaro. Abbiamo sempre parlato tanto. Fa ridere, ma io non ho mai marinato la scuola. Papà, non mi va di andare a scuola. E lui: fai tu... Il catechismo sì, lo marinavo spesso, e a lui non andava, cattocomunista mitigato da mia madre – ma più che arrabbiato era divertito. Era come se parlassi a mio fratello. Eppure non c’è mai stata confusione di ruoli, erano genitori a tutti gli effetti. Stare vicini ai figli vuol dire comunicargli la bellezza che loro per primi hanno conosciuto. Mio padre mi ha trasmesso l’amore per Totò, per Fellini, per il cinema, per la poesia. Mia madre, che è maestra elementare, per la scrittura. Si sono amati molto, e di conseguenza hanno amato i figli. L’amore genera belle famiglie. Papà era un sognatore, non ha mai cercato di scoraggiarmi. Le racconto questa: avevo tredici anni, ero un chitarrista, amici più grandi del paese mi chiamarono a suonare con loro a una festa. Facemmo Jimi Hendrix e i Doors. Tornai in casa trionfante con ventimila lire in mano, ci avevano dato ottantamila lire in quattro. Mio padre e mia madre me le fecero restituire immediatamente.
Mi dissero: se già adesso capisci che puoi farci dei soldi le tue aspirazioni si fermeranno qui, e magari neanche terminerai gli studi. Per me ventimila lire erano sei 45 giri, una rinuncia pazzesca. Ne compravo uno a settimana raccogliendo spiccioli a destra e a manca».
Con il padre condivideva le grandi melodie, di Nino Rota, Puccini, Gershwin. Ma anche Lucio Dalla, Luigi Tenco, Bruno Lauzi. Divorava i suoi vinili, metteva la Rapsodia in blu per addormentarsi. «Sono cose che poi ritrovi nella vita», dice. «Mia madre è avanti, adora i Foo Fighters. È una rockettara, più Rolling Stones che Beatles. Non avevano paura del rock’n’roll forse perché non gli davo modo di preoccuparsi. Sa quale era il mio trucco? Studiavo la notte per suonare di giorno. In realtà terminare gli studi era anche una mia urgenza. Tra noi c’è sempre stato un rapporto onesto, semplice, pulito. Pur sapendo che lì fuori c’erano milioni di ragazzi che pativano il famoso gap generazionale. Che può essere evitato se si potesse garantire una cultura di base per tutti, famiglie comprese, migliorando le scuole elementari – se ti fotti là, sei finito. Lo so per esperienza diretta – mia madre ora è vicepreside – gli insegnanti sono trattati a pesci in faccia. Non possono impegnarsi a creare una società migliore quando loro stessi non riescono a sbarcare il lunario. Non che debbano arricchirsi, ma almeno guadagnare quanto basta per vivere sereni. Il gap generazionale nasce da lì. Senza una scuola migliore non ci sarà una società migliore».
Scrive sempre, incessantemente, e in questi ultimi anni in maniera torrenziale. E non tutto finalizzato ai melodici contorcimenti dei Negramaro. Pensa a un altro romanzo, forse un libro di poesie. Ha ricordato Pasolini ne L’alba dei tram, il testo che Renzo Anzovino ha messo in musica per la voce di Mauro Ermanno Giovanardi. Ha composto una canzone per il nuovo album della Pausini «che Laura canta sottovoce». Ha scritto un testo intitolato Fino al midollo dei sogni per il catalogo della mostra Le fatiche di Ercole, allestita dalla Triennale di Milano per gli 80 anni dell’artista salentino Ercole Pignatelli, che inizia così: “Essere profondamente legato alle proprie radici vuol dire fisiologicamente dimenticarle, come quando si dimentica l’amore per un padre e per una madre, tanto sai che c’è da sempre e per sempre ci sarà”. «Le origini: dimenticatele. Quando le origini sono profondamente radicate, devi dimenticarle», conclude. Inevitabilmente ripensa a suo padre, la commozione strozza la voce. L’atmosfera è quella del soliloquio di Patti Smith in Birdland, nell’album Horses: “His father died, left him in a little farm in New England…”.
«Lo sogno poche volte e mai per caso. Si fa sentire solo quando sta per accadere qualcosa d’importante. A volte ho l’impressione che sgomiti per comunicare con me. È un’energia forte. Da dove arriva? Dove si trova? Cosa fa? Non lo so. Lo immagino incazzato, com’era lui, comunista incazzoso. Ne Il posto dei santi canto: “Siamo sostanza che non può sparire”. Poi alla fine il dubbio torna prepotente: “Tu non sparire”». Sospira: «Non si fugge, tutto torna, siamo i nostri padri».