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 2015  novembre 07 Sabato calendario

Sharm el-Sheikh, vita disperata o rassegnata o felice di quelli che non possono tornare a casa

SHARM EL SHEIKH Ci sono quelli che se la prendono personalmente e stanno in coda all’aeroporto sin dall’alba a consumarsi in attese massacranti tra noia, sprazzi di speranza e picchi di delusione nera. Sono esasperati, impotenti, parlano di «complotto», si dicono vittime di «macchinazioni politiche». Come i due ingegneri inglesi innamorati di subacquea che ieri a mezzogiorno avevano i nervi a fior di pelle tanto da minacciare di fare a cazzotti con tre o quattro giovani russi altrettanto stressati. Possiamo immaginare la rabbia di questi ultimi quando infine, a metà pomeriggio, da Mosca è giunto l’ordine di bloccare i voli per l’Egitto tout court.
Poi ci sono i fatalisti, gli epicurei, che si adattano di buon grado e restano sulle spiagge per un ultimo ritocco all’abbronzatura, la vivono come una vacanza supplementare. Per esempio il gruppetto di pensionati marchigiani incontrati sulle sdraio del Marriott. «Cosa possiamo farci? C’è sempre tempo per preoccuparsi. Intanto godiamoci questo paradiso, che in Italia è già arrivato il freddo», esclama Maria Teresa Morresi, 77 anni, di Montegranaro, in provincia di Fermo. È qui con il marito 86enne Dino Zallocco e altri amici. Tra loro, Mario Clemente, ex commerciante di 74 anni, non ha dubbi: «Ovvio che Isis ha messo la bomba sull’aereo per vendicarsi contro la politica di Putin in Siria. Per noi è una questione di fortuna. Se ti va male finisci sull’aereo sbagliato». La calma del mare fa da sottofondo. Le temperature sono perfette, non una nuvola in questi cieli che già alle tre del pomeriggio si tingono di rosato sullo sfondo dei profili scuri delle montagne rocciose a corona sul Mar Rosso. La loro preoccupazione è semmai che le compagnie aeree paghino le notti supplementari, «compreso cibo e minibar». Altri preferiscono perdere il tempo in telefonate di ore e ore con i tour operator. Rod Stevenson di Brighton, pensionato 67enne qui con dodici famigliari tra figli e nipoti, solo in serata era disposto a bere finalmente una birra davanti alla piscina. Poi è tornato a chiamare il suo agente di viaggio. Questi però, come del resto i suoi colleghi, letteralmente non sa più a che santo votarsi. Promette: «Andrò subito a verificare dai militari». Ma appare ovvio che nessuno ha la minima idea sul che fare. A chi chiedere. Un’alternativa sarebbero le 7-9 ore di auto per il Cairo. Però costa 200-300 euro a veicolo, ci sono state inondazioni sulla strada per Suez e i più attendono.
E in verità cosa potrebbero fare? Nulla, assolutamente nulla. Il problema è troppo più grande di loro. A conti fatti, sono quasi 100 mila i turisti stranieri bloccati. Di cui oltre 25 mila inglesi e 45 mila russi. Da Roma la cifra degli italiani è valutata in circa 1.400. Gli aerei atterrano a singhiozzo. Cancellazioni e riconferme si susseguono con destabilizzanti ritmi da cardiopalmo. Le strettissime misure di sicurezza egiziane costringono a tenere bene a mente il rischio attentati. Per arrivare ai banchi del «check in» abbiamo contato tre controlli maggiori con metal detector. Chi parte lo fa soltanto senza bagaglio. Ma per gli operatori turistici le difficoltà sono ancora più gravi. «Gli egiziani bloccano i nostri voli per motivi politici, se la prendono in particolare con le compagnie britanniche», dicevano ieri a mezzogiorno due responsabili di EasyJet, i quali tra l’altro stavano cercando di fare arrivare due loro voli da Malpensa. Lo evidenziava in modo graficamente eloquente la cinquantina di russi scesi dal loro autobus all’aeroporto indossando una maglietta con stampato il volto sorridente di Putin. «Viva il nostro presidente. Lui ha fatto le scelte giuste!», gridavano decisamente aggressivi ogni volta che incappavano in un reporter occidentale. Incidente o attentato? La domanda domina sovrana. «Ovvio che è stata una bomba», dicono quasi all’unisono gli inglesi, ben contenti che da Londra abbiano inviato personale britannico per le operazioni di sicurezza e controllo. Gli egiziani sono offesi, la vedono come un’invasione di sovranità e minimizzano. «Dobbiamo aspettare i risultati dell’inchiesta. Se fosse solo un incidente, tutte queste tensioni si rivelerebbero ridicole», dice frettoloso Ayman al Kaiyssouni, direttore ve ndite di origine cairota dei due Marriott locali. Grande politica e logistica turistica appaiono così curiosamente correlate. E ciò per il semplice fatto che, nei pochi giorni che ci separano dalla tragedia sabato scorso dell’Airbus A321-200 della Metrojet russa tra le alture aride segnate dalle wadi profonde del Sinai settentrionale, Sharm el Sheikh da rinomata stazione balneare per il turismo internazionale si è trasformata nell’epicentro di una grave crisi geopolitica dalle conseguenze ancora completamente aperte. Evitando i sensazionalismi, occorre dire che non è la prima volta. Va ricordato che la ventina di chilometri costieri punteggiati di alberghi di lusso, piscine, baie antropizzate con porticcioli, palme curate e giardini all’inglese, mercatini e ristoranti, sviluppata a partire dai primi anni Ottanta dall’ex presidente Hosni Mubarak, è stata ripetutamente oggetto di attentanti da parte dell’estremismo islamico dalla fine degli anni Novanta. Fu allora che i russi presero il posto degli italiani.
Sharm rimosse le scritte italiane e mise quelle in cirillico. La vodka si sostituì ai vini della Penisola. «Avvenne con la grande paura seguita alla sessantina di turisti occidentali assassinati a Luxor dai Fratelli Musulmani nel 1997. Anche noi venimmo minacciati. Il turismo cadde in crisi. Poi ci furono gli attacchi su Taba con 34 morti nel 2004, le aggressioni contro israeliani e americani sulle nostre spiagge del Mar Rosso. Le tre bombe con ottanta morti, in maggioranza egiziani, nel luglio 2005 contro il mercato vecchio e gli hotel di Sharm el Sheikh. Le rivolte di piazza durante i disordini del 2011 tornarono a metterci in ginocchio. Ora ci stavamo riprendendo. Ma la tragedia dell’aereo russo ci riporta al buco nero del punto di partenza», dicono quasi all’unisono James Wilkinson, il 37enne proprietario di origine inglese di un centro sub presso l’Hilton di Naama Bay, e il gestore cairota di «Gova», un’agenzia di viaggi specializzata nei tour all’alba dalla costa alla cima del Monte Sinai, passando per il monastero di Santa Caterina antico quasi 1.500 anni. Dopo gli attentati del 2005 la polizia chiuse Santa Caterina ai turisti. La paura dei gruppi qaedisti operanti presso El Arish e nel Sinai confinario con Israele si era fatta tangibile. Ora la pista per il monastero è stata riaperta, il pacchetto per la cima costa 25 dollari a testa, compreso il pranzo. Ma i visitatori stranieri si contano sulle dita di una mano. Wilkinson sta pensando di raggiungere i suoi vecchi partner nelle Filippine, partiti da Sharm dopo la primavera araba del 2011. Rivela sconsolato: «Una settimana fa, prima dell’incidente, avevo cinquanta prenotazioni per le mie uscite sub in barca. Ma inglesi e tedeschi hanno cancellato. Resto con 12 turchi, ma non basta, così non copro neppure le spese».