il venerdì, 6 novembre 2015
Francesco Guccini, autoritratto di un ragazzo di montagna
Un ragazzo di montagna un giorno scende in città e diventa un cantante. Molti anni più tardi toma tra le sue montagne e si trasforma in uno scrittore. Sommario stilizzato della storia di Francesco Guccini. Dove luoghi e contesto non smettono d’avere un’importanza capitale. La vera vicenda, ovviamente, è più complicata. Francesco nasce a Modena nel ’40, ma quasi subito, col padre richiamato, prende la via dell’Appennino tosco-emiliano, a Pavana, casa dei nonni patemi. A guerra finita toma a Modena ma il legame con la montagna ormai è indissolubile. Modena, la «piccola città», non l’amerà mai. Bologna sì. Ci arriva a vent’anni e trova pane per i suoi denti e la compagnia che cerca. Ci vuol poco perché la sua magnifica carriera da cantautore cominci.
Oggi, molti anni più tardi, Guccini vive un momento particolare, fatto di celebrazioni e di novità. Per cominciare il club Tenco gli ha appena dedicato la sua edizione 2015, omaggiandolo come un immutabile padre fondatore della nostra canzone d’autore. Nel frattempo in libreria è arrivato Un Matrimonio, un funerale, per non parlare del gatto (Mondadori), una nuova raccolta di racconti dedicati alla sua terra e alla sua gente. E il 27 novembre uscirà Se io avessi previsto tutto questo – Gli amici, la strada, le canzoni, box-set definitivo della sua produzione musicale, in due versioni: la Super Deluxe (10 cd, 5 col meglio in studio, 4 col meglio live, uno di rarità) e la Deluxe (la metà di quanto sopra). Dato un simile momento di esposizione, è inevitabile parlarci sopra.
Il libro, per cominciare, il più memoria- lista che abbia scritto, anche se si occupa più degli altri che di se stesso e soprattutto di quella sua ossessione delle «radici», a cui intitolò il disco più mitizzato, 43 anni fa. Guccini sembra spinto dal bisogno di parlare di un’assenza, di un’Italia che non c’è più: «Penso d’aver vissuto un’esperienza oggi irripetibile, in quel mondo di civiltà contadina e montanara», dice. «Negli anni 50 si viveva in maniera diversa. I miei nonni mandavano avanti un mulino, si spostavano sui somari con in spalla sacchi di castagne da macinare».
Il mulino c’è ancora, si chiama Chicon. Guccini in passato ci ha registrato la sua musica e ora ne ha fatto un bed & breakfast. «Quando ero bambino nessuno aveva l’auto o il telefono. Pochissimi avevano la radio e la tv non esisteva. È una civiltà dimenticata. Di là dall’acqua, come si dice da noi, ovvero oltre il fiume, c’erano contadini che vivevano di un’agricoltura poverissima: un paio di mucche se andava bene, o un paio di buoi per arare». I racconti di Un matrimonio, un funerale somigliano a super8 riemersi da un baule. Celebrano una solenne, quanto ironica liturgia dell’umiltà: «Cercando, ho trovato delle tracce. In Funerale, per esempio, descrivo come le funzioni funebri fossero celebrate con gli uomini che se ne restavano fuori dalla chiesa, a parlare dei funghi e dell’orto, ogni tanto rievocando lo scomparso. Nel’52 noi di Pavana andammo in gita a Genova, alla Madonna della Guardia, in cima al monte Figogna. Poi la prozia, che aveva fatto la cameriera da una famiglia ricca, mi portò a visitare il transatlantico Augustus. Ricordo la meraviglia mentre m’aggiravo per il bastimento. Avevo la netta coscienza che quel mondo di fasto non sarebbe mai appartenuto a noi. Del resto a Pavana c’era una distinzione invalicabile tra la gente del posto e i villeggianti estivi. Li chiamavamo “i signori"».
Lungo quell’andirivieni tra paese e città, si articola la formazione di Guccini. Il suo venerato Borges dice che ogni scrittore è autobiografico: anche se scrivi una favola, finirai per parlare di te. Francesco si è mosso così, anche con le sue canzoni. Quel nuovo monumento digitale che si diverte a chiamare «il cofanetto» è lì ad attestarlo: «Dentro c’è un sacco di roba. Ci sono inediti, uno addirittura dal primo lp. Ma la novità credo siano le cose dal vivo. Vengono da concerti particolari, come al Folkstudio di Roma, da solo con la chitarra. Anche là faccio un inedito, una canzoncina simpatica: Osteria dei poeti». Da apprendista-cantautore Guccini ha già il suo stile disinvolto. S’è fatto le ossa nelle balere, con quelli che prima si chiamavano gli Hurricanes e poi i Gatti. Quando monta sulle tavole del leggendario locale di Cesaroni, non ha gli scrupoli dei cantautori romani, che si sentivano sotto esame. «Suonavo quel che mi passava per la testa. Ero abituato all’Osteria delle Dame, a Bologna, dove cantavo il giovedì. Al Folk- studio improvvisavo, parlando tra una canzone e l’altra. Una sera feci perfino un pezzo che cantava mio padre, chissà dove l’aveva imparato: faceva “Noe, Nocchin, Nocchetta / avevan sete e andavano a bere alla fonte del re...”. La gente rideva. Cantai anche L’Andricca, che significa l’Enrica, la canzone popolare bolognese di Luciano Trombetti. Sempre un po’ a tirar via, perché, contrariamente a quel che si crede, io il dialetto bolognese mica lo parlo bene».
Altro che pensosità intellettuale. Un tipo estroso. Che non s’è tirato indietro nemmeno davanti alla tentazione di cantare Guarda che luna di Buscagliene: «La prima volta fu a Cagliari, all’anfiteatro romano. Guardando su dal palco, ho visto questa gran luna piena. Dico a Flaco Biondini, il chitarrista: dammi un Mi minore. E ho attaccato, all’impronta. Al momento giusto, Agostino Maran- golo ci ha pure fatto l’assolo di sax». Uno spasso, da stare a sentire. «Ho iniziato nel solco dei francesi, Brel e Brassens, come De André. Poi è arrivato il blues, che per noi era come il valzer: l’avevamo ascoltato così tanto nelle balere, che risuonarlo è stato naturale. Anche il riferimento a Dylan, fu casuale. Questione d’incontri: a Bologna c’erano un sacco di studenti americani e tutti suonavano la chitarra. Sono stati loro gli ambasciatori della sua musica. Quando m’è venuto da scrivere il primo talkin blues, c’era Lou Gottlieb, un americano che suonava meglio di me e l’ho fatto con lui. Poi ho conosciuto Deborah Kooperman, anche lei studentessa a Bologna e maestra del fingerpicking: ha suonato con me per dieci anni». Storie antiche.
A fine 2012, invece, nonostante la buona accoglienza dell’ellepì L’ultima Thule, Guccini rende noto di volersi ritirare dalla musica. Basta dischi e concerti. Tre anni dopo, a 75 primavere suonate, viene da chiedergli se è ancora sicuro della scelta: «Convinto. Per necessità. Le canzoni non mi uscivano più con la facilità di prima. Tra gli ultimi due dischi sono passati cinque anni: la produzione non era più quella di una volta. Dopo la decisione, nei primi tempi non passava giorno che non prendessi in mano la chitarra. Adesso sono anni che non la guardo».
Che succede nella testa d’un uomo che per mezzo secolo ha vissuto di musica? «Overdose. Forse stanchezza. Anche i concerti erano faticosi. Aznavour fa serate a novantanni e al confronto sono un ragazzino. Avrà un fisico più robusto del mio. Ciò di cui sento la mancanza, soprattutto, sono il prima e il dopo degli spettacoli coi musicisti, lo stare in allegria. Ma della musica non sento più il bisogno. Sono convinto d’aver creato qualcosa che può restare. Non per dei secoli, forse, ma per qualche anno ancora». Celti brani di questo esistenzialista della musica sono diventati inni, segnali di riconoscimento di un repertorio culturale condiviso. Adesso, invece, le canzoni in circolazione non riescono ad assumere l’importanza di una volta. Che succede alla musica? «È cambiato tutto» dice Francesco, «non ci sono più i negozi di dischi. I talent scout sono stati destituiti. La nostra canzone era fatta da gente con una preparazione cui turale, che scriveva cose che non voleva venissero scambiate per saponette. Manifestavano idee, raccontavano delle storie. Io ho sempre fatto questo: ho raccontato delle storie. Prima nelle canzoni. Ora nei libri». Prendiamo Canzone di notte N.2: dov’è finito quel paese pieno di confronto delle idee? Quel paese del noi e del voi? «Se nasce una scuola letteraria fortunata, non è detto che subito dopo ne nasca un’altra. Ci sono dei vuoti. La canzone negli anni 70 è stata magnifica. Adesso s’è seduta. Non ascolto più musica ma, se capita, sento solo canzoni inutili». Dal 2001 Guccini non abita più a Bologna. È tornato su, in montagna: «Ho ancora casa in Via Paolo Fabbri e quando passo in città ci vado. Ma non è più la Bologna che ho conosciuto, che era intensissima. Mi sono abituato a una vita più tranquilla. Gravito su Porretta Terme, in cinque minuti ci arrivo. La folla e il traffico m’infastidiscono. Sono ridiventato un montanaro. Come una volta».