il venerdì, 6 novembre 2015
Dentro l’Economist, nella redazione dove i giornalisti non firmano i loro pezzi. La loro gioia sta nell’esserci
La vera torre di Londra, il luogo, il cuore del «potere cerebrale» britannico, è questo palazzotto smunto e grigio di 15 piani al 25 di St. James’s Street. I guardiani che la difendono la chiamano loro stessi semplicemente the tower of truth, la torre della verità, un modo ironico, ma britannicamente ambizioso per confermare il titolo e il ruolo che si tramandano. Quello di scandagliare a fondo la follia e la complessità del mondo di oggi, raccontarlo a chi compra 1 milione e 600mila copie, illuminare e orientare le scelte di chi decide. Loro, i guardiani, sono i giornalisti dell’Economist, il settimanale britannico che si pubblica ininterrottamente da 173 anni. Lo chiamano il «paper», non magazine e neppure newsmagazine, ed è quel foglio di cui quest’estate la Exor di John Elkann e cugini ha comprato il 43,4 percento delle azioni per più di 400 milioni di euro. Sarebbe per metà italiano, ma è rimasto al 100 per cento british. O meglio, «global».
Di sicuro il nipote di Gianni Agnelli sarebbe arrivato anche oltre il 50 per cento se le regole a tutela dell’indipendenza della redazione glielo avessero permesso. Ha detto qualcuno che John ha comprato il giornale da cui il nonno poteva soltanto essere intervistato. L’avvocato era un lettore seriale dell’Economist, così come il nipote che secondo la leggenda chiese un abbonamento al paper fin da quando aveva appena 14 anni.
«I rapporti con Agnelli furono sempre interessanti» racconta con delicata ironia Tana de Zulueta, per anni corrispondente da Roma. «Lui provava a fare quello che fanno tutti i politici o i businessmen, influenzare, fare pressioni; quando pubblicammo un articolo sulla Fiat in cui citavamo la definizione data da alcuni di loro di Ghidella come «ruota di scorta della Fiat» fece di tutto per sapere chi era l’autore dell’articolo, non firmato come al solito, sapendo magari benissimo chi era stato e che noi comunque il nome non glielo avremmo mai detto. Come confermò il direttore dell’epoca, Bill Emmott». Sull’Economist infatti nessuno firma gli articoli, eccezion fatta per gli special reports: la gioia per i giornalisti sta nel fare parte della squadra, nell’esserci, non nel vederci scritto il proprio nome.
Il capitolo Agnelli/Elkann potrebbe fermarsi qui, se non altro perché per farci entrare nella torre ci hanno detto chiaramente che non avrebbero gradito molto parlare più del necessario di nome, nazionalità o carattere del nuovo padrone italiano. Vista la struttura di protezione che l’Economist si è dato (consiglio di amministrazione, 4 garanti, e consiglio informale degli ex direttori), gli eredi di Agnelli potranno solo godersi l’ottimo affare economico e soprattutto di immagine che John ha concluso comprando parte di un giornale che orienta il mondo, ma che fa anche solidi utili con la prospettiva di continuare a fame per molti anni.
Al 15esimo piano, poco prima che inizi la mitica riunione delle 11 del lunedì mattina, l’executive editor Daniel Franklin conferma che ormai anche in questo giornale la sfida è una soltanto: come affrontare la nuova era digitale, l’integrazione o cos’altro sia necessario per combinare Internet e copie di carta. Daniel è nella torre da 32 anni, ha ricoperto vari incarichi di comando e scrittura, ed è stato anche capo di www. Economist.com: «La sfida che sentiamo soprattutto noi che veniamo dalla carta è quella di trasferire la nostra qualità anche al digitale, trasferire spessore in un contesto di velocità e volatilità». Facile a dirsi: farlo guadagnandoci soldi è difficilissimo.
Dice Tom Standage, il digital editor, che di un 1 milione e 600mila acquirenti del giornale (la metà sono negli Usa), 800 mila lettori hanno insieme l’abbonamento al digitale e alla carta, circa 400mila prendono solo la copia di carta e gli altri 400mila solo il digitale. «Con molte sorprese: molti giovani preferiscono la carta perché fa status symbol, molti anziani quella digitale perché sul tablet possono allargare il carattere tipografico e leggere meglio. Ma di sicuro tutti insieme andiamo verso un peso maggiore del digitale».
Torniamo al racconto della redazione. C’è una grossa statua in marmo nell’androne della torre: tutto iniziò con lui nel 1843, quando quest’uomo d’affari e banchiere, James Wilson, fondò un foglio per combattere le corn laws che limitavano l’importazione di cereali nel regno proprio mentre c’erano carestie e penuria. Partì così la lunga corsa di uno strumento creato apposta per combattere battaglie politiche e ideali in nome del liberalismo economico. Nel 1880 siamo a sole 3800 copie, nel 1920 a seimila, dopo la Seconda guerra mondiale a l00mila. L’anno 2000 porta 1 milione di copie, già nel 2013 si supera il milione e mezzo. A gennaio, quando il penultimo dei 17 direttori, John Micklethwait, ha lasciato l’incarico, l’Economist ne vendeva più di un milione e 600mila, con un profitto di 59 milioni di sterline.
Da gennaio il 17esimo «custode» alla guida della torre della verità è una donna, Zanny Minton Beddoes. È lei la persona che alle 11,20 entra nello stanzone all’ultimo piano in cui per più di due ore andrà in scena la riunione del lunedì, la più importante della settimana. Zanny è una 47enne, un’economista che ha studiato ad Oxford e Harvard, poi è partita per il Fondo monetario a Washington, ha lavorato per un paio d’anni anche con Jeffrey Sachs col quale fu in missione in Europa, per esempio in Polonia per aiutare quel Paese a rimettere in piedi la sua economia dopo il comunismo.
Al giornale dal 1994, Zanny è diventata direttore dopo la partenza di Micklethwait per la guida di Bloomberg a New York: c’era una lista di 13 candidati, alla fine la short-list includeva il capo degli esteri Edward Carré il digitai editor Tom Standage. Hanno preferito lei, per la profonda conoscenza economica. In 173 anni per la prima volta una donna.
La riunione del lunedì è leggendaria, per mille ragioni. Con la creatività e l’informalità dei giornalisti a qualsiasi latitudine, uomini e donne (poche, a parte la direttrice) si incontrano per discutere e preparare il numero che verrà chiuso e stampato giovedì notte. La Merkel e il suo coraggio sui migranti (ma forse ha esagerato?). L’Egitto e al-Sisi, un nuovo Mubarak meno capace. Poi naturalmente Assad, naturalmente tantissima economia. Zanny governa il traffico con calma, freddezza, ma senza essere sbrigativa; orienta la discussione, la incanala, non ha bisogno di interrompere nessuno perché nessuno oltrepassa una soglia di interesse e attenzione che ciascuno si autoimpone in maniera naturale, su qualsiasi tema.
Per seguire la riunione l’Economist ti fa firmare un impegno alla riservatezza, non vogliono che la loro lista di argomenti finisca fuori del giornale. Ma più che l’elenco dei temi trattati e la qualità delle analisi e dei commenti, il segreto di questo editorial meeting è quello di confermare il fatto che qui dentro si sono concentrati dei professionisti figli delle migliori scuole e università del regno, giornalisti che sono cresciuti e hanno vissuto in uno dei migliori sistemi politici ed economici d’Europa, una serra ideale per allevare talenti, selezionarli e metterli insieme.
Ritroviamo Anton La Guardia, il vice-capo degli Esteri: nel 1989 ci conoscemmo a Tripoli fra i giornalisti che raccontarono i primi vent’anni della rivoluzione di Gheddafi. Anche Anton era uno dei 15 possibili candidati alla successione di Micklethwait. Parla della nuova direttrice con rispetto: «Sa come governare la riunione e scegliere gli argomenti, corregge il tiro quando le sembra necessario, lascia l’autonomia necessaria ai settori per lavorare in libertà».
Ha detto Zanny ad Alain Elkann, il padre di John, che «da quando sono direttore la mia vita è diventata molto più pianificata e programmata, faccio riunioni su riunioni. Noi seguiamo al meglio la politica, gli affari internazionali, la scienza, non siamo solo un giornale per economia e finanza. Io vengo dal mondo dell’economia, ma è uno stereotipo dire che siamo un noioso giornale di economia e finanza». È vero, l’Economist potrà piacervi o meno, ma tutto è
La riunione è finita, tutti scivolano veloci verso i piccoli uffici e i mini-open space in cui è divisa la redazione piano su piano. Gli interventi, le battute, le risate, i commenti di Zanny o degli altri risuonano nei corridoi, nei ragionamenti di tutti. Un nuovo numero dell’Economist è in rampa di lancio. A casa sua John Elkann si frega le mani: non saprà cosa c’è sulla copertina fin quando non lo avrà ricevuto il giovedì sera sul suo I-pad o venerdì con la mazzetta dei giornali di carta. Idee, analisi, commenti di prima qualità, li scoprirà solo leggendoli: l’unica cosa sicura che conosce in anticipo sono gli utili, certi e sicuri, che arriveranno da questa torre del buon giornalismo.