il venerdì, 6 novembre 2015
Isola di Man, viaggio nella capitale dei Bitcoin
Le automobili hanno il volante sul lato passeggero, le prese a muro respingono ogni intrusione continentale, i ragazzi girano in t-shirt anche con temperature da passamontagna. Siamo decisamente in Gran Bretagna: «Si, ma non nel Regno Unito» precisano sull’Isola di Man. E per convincerti ti mettono in mano una banconota da dieci sterline: l’immancabile Elisabetta qui non è regina, e sulla valuta firmata Isle of Man Government la sua acconciatura non può contare sulla magia della corona millenaria. La sovrana inglese per i locali è semplicemente Lord of Man, signora (o meglio signore) di un’isola che si fregia del parlamento più antico del mondo, di un’indipendenza tutt’altro che formale e di un motto latino che suona più o meno «strapazzami quanto vuoi, io resto in piedi».
In realtà negli uffici governativi l’austero Quocunque jeceris stabit è sempre più spesso accompagnato da uno slogan che taglia i ponti con tradizione, devozione e latinorum: «Il miglior piccolo business ceri tre del mondo». Piccolo, è piccolo davvero: 85 mila abitanti e una capitale,
Douglas, che dopo le sei di sera si ritrae nel buio come una testuggine. Ma il migliore? Be’, nell’anno di grazia 2015 non sono molti i Paesi a poter vantare trent’anni di ininterrotta crescita economica. In Europa, praticamente solo loro: «Abbiamo diversificato» ci dice Chris Corlett, a capo del Dipartimento dello sviluppo economico dell’isola, «e colto con prontezza ogni occasione». L’ultima ha tratti temerari, megalomani, lievemente surreali: fare di quest’isoletta a metà strada tra Irlanda e Inghilterra la capitale mondiale del Bitcoin, la controversa valuta digitale liquidata come«un miraggio» da mito della finanza Warren Buffett ei esaltata come «la nuova internet» da guru della rete Marc Andreessen.
«Ho lavorato dieci anni in una banca d’investimenti a Londra, ma non ho ma dimenticato la mia isola» ci dice Charlie Woolnough, brillante fondatore di Coin Corner e della Manx Digital Currency Association, che raduna le novanta imprese locali coinvolte nell’avventura del la valuta che non c’è. Certo, il passaggio dalla city di Londra a quella di Douglas può dare la claustrofobia, ma Charlie i convinto che, almeno nel suo campo, i cuore del mondo sia lontano dal suo centro: «Oggi non c’è posto migliore per avviare un business legato ai bitcoin e la ragione è semplice: l’Isola di Man è stati la prima giurisdizione europea a riconoscere e regolamentare la valuta digitale». Chissà se hanno fatto un buon affare: i Bitcoin è nato nel 2009 a opera di un misterioso hacker che si fa chiamare Satosh Nakamoto. In piena crisi finanziaria l’idea era di fare una volta per tutte a meno delle banche, comprese quelle centrali: la valuta digitale, o criptovaluta, poggia si un software che autolimita il volume d denaro circolante, e su una rete di programmatori che certificano ogni transa zione. Tutto open source, tutto affidate all’intelligenza collettiva del web che abolisce controlli e commissioni a terzi Ma negli anni gli annunci dei trionfi s’alternano alle cronache dei tonfi: il valore della moneta lievita fino all’astronomica cifra di 1.150 dollari, per poi ripiegare su un sesto di questo valore e riprendere leggermente quota fino agli attuali 270 dollari per bitcoin.
Di criptovaluta si parla quando le autorità americane arrestano il titolare de sito Silkroad, che in moneta virtuale vendeva coca ed ecstasy, o quando uno dei principali «cassieri» mondiali viene hackerato facendo svaporare una montagna digitale da quattrocento concretissimi milioni di euro. La festa appena cominciata è già finita, cantava Sergio Endrigo negli anni Sessanta. Ma all’Isola di Man non la pensano così, e restano convinti di aver scelto il cavallo giusto per i prossimi decenni di sviluppo: «Liquidare la valuta digitale solo perché un operatore è stato hackerato» sintetizza Charlie Woolnough «sarebbe come mettere in dubbio il sistema bancario perché qualcuno si è fatto rubare i codici della carta di credito».
Dopo sei anni di traversie il Bitcoin non ha sfondato, ma non è nemmeno affondato: «Strapazzami quanto vuoi, io resto in piedi» dicono nella sua patria d’elezione. Tra chi non traballa c’è Duncan Cameron, ex manager della multinazionale del gioco PokerStars, che nel 2014 si è licenziato per fondare una startup dedicata alla valuta digitale: «Ho fame di affari, e se aspettavo ancora un paio d’anni avrei trovato la folla» ci dice con franchezza. Cameron è di origine scozzese, ma si è ambientato benissimo in quest’isoletta che trasuda spirito britannico e business planetari: «Vendo carte prepagate per i casinò online delle Bahamas». Sa di essere ai piani bassi della filiera del Bitcoin, ma ne fa quasi un punto d’onore: «La moneta digitale sfrutta magistralmente le potenzialità della rete» ci spiega allungandoci una Crypto Scratch Card da 0,001 bitcoin. «Ma qualcuno deve pur occuparsi di portare sul mercato questa meraviglia tecnologica».
Incontriamo Cameron mentre sta concludendo un meeting con Brian Donegan, responsabile governativo del business legato alla valuta digitale: «Abbiamo discusso dei prossimi tre anni della mia azienda» chiarisce senza imbarazzo Sull’Isola di Man si fa così, e a nessuno verrebbe in mente di insinuare una combine pubblico-privato: «Noi funzionari statali siamo a disposizione di chi vuole fare impresa sull’isola» conferma Donegan. Che anzi puntualizza: «Il Bitcoin interessa soprattutto perché notiamo la convergenza tra il mondo della valuta digitale e quello del gioco Online, che ormai vale il 15 per cento del nostro Pil».
Secondo l’Economist a Douglas si s no specializzati nel trasformare business opachi in attività rispettabili: «In realtà fino a quarant’anni fa eravamo la prima meta turistica della working class inglese» spiega il guru dello sviluppo economico Chris Corlett. «Poi i voli verso la Spagna ci hanno messo fuorigioco e abbiamo dovuto reinventarci come piazza finanziaria». Sull’isola le imprese non pagano tasse e le persone fisiche hanno un’aliquota massima del 20 per cento: le condizioni ideali per attirare gli happy few, ma anche per sollecitare la diffidenza della comunità internazionale. Quando intuiscono che i paradisi fiscali hanno gli anni contati, i membri del Tymwald com’è chiamato il Parlamento locale attivo ininterrottamente dal 979, decidono d provare altre strade: «Abbiamo regolamentato il gioco online attirando sull’isola gli operatori seri e tenendo alla larga: troppo furbi» spiega Brian Donegan. «Il risultato sono 900 nuovi posti di lavoro e un tasso di crescita che nel 2014 ha toccato il 30 per cento».
Offrire legittimità a settori senza patria evidentemente conviene: a dominare la baia di Douglas è ora la maestosa sede di PokerStars, mentre il reddito degli isolani è passato in trent’anni dalla metà al triplo di quello dei cugini del Regno Unito. Il segreto è stato puntare sulle nicchie, l’asset fondamentale un Parlamento autonomo che ama legiferare in terra incognita: «Siamo stati i primi a prendere sul serio i casinò del web quando tutti parlavano solo di azzardo» continua Donegan. «E ora siamo i primi ad applicare le norme antiriciclaggio e i vincoli di vigilanza agli operatori di Bitcoin». Meno tasse ma più regole: dopo i croupier digitali anche la criptovaluta riparte da qui per provare a farsi prendere sul serio.
Eurolandia può contare su 340 milioni di abitanti. Ma quanti sono i cittadini di Bitcoinistan? Charlie Woolnough sa che la sua piattaforma online vale ventimila clienti: «Soprattutto inglesi che convertono sterline, ma anche tedeschi e italiani che cambiano euro». Molto più difficile è dire quanti siano al mondo i consumatori di valuta digitale: «I portafogli attivi sono circa dieci milioni, ma potrebbero rappresentare fino a cinquanta milioni di persone fisiche» azzarda Woolnough. La vaghezza sui numeri nasconde l’incertezza sulle identità che è croce e delizia del mondo Bitcoin: il registro delle transazioni digitali è accessibile a chiunque, ma nomi e cognomi di chi ha operato quale scambio non sono facilmente reperibili. Da qui la passione per la criptovaluta dei fanatici della privacy, e la ritrosia delle banche a metterci anche solo un conto corrente: «È il problema principale del nostro business» spiega Woolnough. «Ma spero che qualcosa cambi ora che, almeno nell’Isola di Man, gli operatori di valuta digitale sono soggetti a regolamentazione e vigilanza».
Al mondo ci sono 100 mila esercizi commerciali che accettano Bitcoin, contro 28 milioni che trattano carte di credito. È ovvio che una sinergia tra i due circuiti farebbe fare un salto ai nuovi arrivati. Ma riusciranno mai a collaborare? Nelle sale ovattate di SMP Partners, che pure è stata la prima società di Douglas a far pagare in bitcoin i propri servizi alle imprese, sono convinti che non basterà una legge per smussare la montagna di diffidenza accumulata in questi anni: «La regolamentazione è solo un primo passo» dice il direttore David Hudson. «Le banche si muoveranno solo quando sarà garantita al cento per cento l’identità di chi paga e di chi incassa in moneta digitale». Non accadrà subito, ma secondo Brian Donegan anche questo accadrà a partire dall’Isola di Man: «A quel punto avremo chiuso il cerchio, e la tecnologia della criptovaluta potrà dispiegare tutto il suo potenziale di moneta, di scambio senza intermediari». Per il mondo finanziario sarebbe una piccola rivoluzione, per l’isola l’ennesima occasione per accumulare profitti, imprese, abitanti: «Nel 1980 eravamo 60 mila e avevamo appena perso il 20 per cento del Pii» sorride Chris Corlett. «Oggi siamo 85mila e non abbiamo ancora smesso di crescere». Nel cimitero di Saint George, proprio di fronte al suo ufficio, una grossa lapide del 1841 ricorda che solo fino a qualche anno prima «Douglas era piccola e quasi sconosciuta», mentre ora basta guardarsi intorno «per apprezzare il contrasto». Sembra scritta ieri. Oppure tra vent’anni, in omaggio alla prima, storica capitale dei Bitcoin.