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 2015  novembre 06 Venerdì calendario

Ritratto di Matteo Orfini, da D’Alema al caso Marino

Quando gli hanno affidato in custodia Ignazio Marino, Matteo Orfini non ha battuto ciglio. Per uno abituato a sopportare le rasoiate di Massimo D’Alema, la sfida Capitale dev’essere sembrata rilassante come un torneo di bocce. Si è pentito molto presto, vittima come tutti del groviglio romano. E ha iniziato a rimpiangere il precedente lavoro di capo dei Giovani Turchi, la corrente fondata nel 2012 per «uccidere il padre» (sempre D’Alema), una macchina da guerra brillantemente lanciata alla conquista di voti e poltrone.
L’archeologia è sempre stata la terza passione di Orfini. Prima viene la politica, da comunista senza comunismo. E prima ancora il Milan, amato senza condizioni negli anni gloriosi del berlusconismo imperante. Rossonero di Roma, insomma: condizione scomoda, ma certamente meno faticosa della gestione del partito nella Capitale. Proprio a lui hanno bussato quando lo scandalo di Mafia capitale ha raso al suolo i democratici della Capitale. Avrebbe fatto meglio a non aprire.
Non è tanto per gli scontrini del sindaco, surreale conclusione di un balletto durato troppo a lungo. È che per uno come Orfini è incomprensibile l’intera gestione di Marino. Tanto metodico e calcolatore il primo, quanto pasticcione il secondo. Un esempio? Prima di diventare commissario del Pd romano, il leader dei giovani turchi ha pianificato e portato avanti la scalata perfetta. Allevato alla corte di D’Alema, ha fiutato il nuovo prima ancora dell’avvento del renzismo. Si è messo in proprio. E dopo aver sostenuto Gianni Cuperlo alle primarie, è diventato presidente del partito e braccio destro del premier. Con ottimi riscontri: è riuscito a catapultare al governo il sodale Andrea Orlando, ha convinto molti giovani deputati a diventare «turchi» e ha pure imposto una sua ex collaboratrice nel cda della Rai. Di fronte a tanta efficienza, è superfluo riferire del giudizio di Orfini su un sindaco di Roma che si mette in testa di duellare con il Papa.
Vive al Tufello, Orfini, ma solo dopo aver messo su famiglia. Prima il giovane Matteo – figlio di un produttore cinematografico – non aveva quasi mai messo piede fuori dal borghesissimo quartiere di Prati. Anzi, da piazza Mazzini. A due passi, inutile dirlo, da casa D’Alema. «Parli come lui!» lo prendevano in giro. In più ha il gusto della battuta non tagliente, semmai leggera. Tempo fa, per dire, fece indossare a Maria Elena Boschi una maglietta con l’immagine di Palmiro Togliatti intento a mangiare un gelato. Si prende poco sul serio e non veste alla moda. Radicai (più o meno) chic, piuttosto. Oggi, a 41 anni, affronta il più complicato passaggio della carriera. Con lo scandalo di Mafia capitale gli sono piombate addosso mille grane politiche e pure la scorta. Traghetterà il Pd romano fino alle elezioni anticipate. E la sera del voto, come gli accade ogni volta che lo spoglio è in corso, si tufferà sulla Playstation: «Che volete che vi dica, mi serve a scaricare la tensione».