il venerdì, 6 novembre 2015
Leccapiedi, breve viaggio nell’Italia dei ruffiani
Il rischio è di scadere nella scatologia per chi tentasse di scrivere un piccolo manuale dell’adulazione, la malattia di un’Italia che attraversa una grave letargia morale. Ma i principali dizionari della lingua italiana, a cominciare dal Treccani, oltre alle definizioni tradizionali di incensatore, lusingatore, cortigiano, caudatario (chi reggeva lo strascico a un alto dignitario ecclesiastico) riportano ormai il neologismo di leccaculo, largamente usato nelle conversazioni e persino un po’ meno olezzante e più delicato del corrispondente in inglese brown nose. O dell’aforisma di Ennio Flaiano, secondo il quale «a furia di leccare, qualcosa sulla lingua rimane sempre».
La Cassazione penale (350/13015) ha giustamente sentenziato che leccaculo è un termine ingiurioso, per cui, rispettoso della legge, devo avvertire che qualunque nome venga fatto nelle righe che seguono non si tratta di un leccaculo, al massimo un sospetto adulatore. D’altra parte, il primo nome è quello di Matteo Renzi, che però è oggetto e non soggetto della pratica scatologica. Lo ha raccontato lui stesso: «I giornalisti che vengono a intervistarmi prima di cominciare mi sussurrano all’orecchio: oh Matteo io sono sempre stato dalla tua parte eh. Il bello è che io non li avevo mai visti prima».
Ma è troppo facile prendersela con i giornalisti, che scrivono tutti i giorni e corrono sempre il rischio di qualche scivolata lecchina, non perché – a parte rari casi – prendano soldi, ma perché sperano di far carriera, di costruirsi fonti privilegiate, di essere invitati negli insopportabili parolifici televisivi. Non era Napoleone che diceva «i giornalisti sono piccoli ruffiani del potere»? Però politici, banchieri, dirigenti pubblici e privati, intellettuali di ogni tipo, top manager non sono tutti inflessibili paladini della loro autonomia, che siedono a schiena dritta in poltrone guadagnate per merito.
Gli adulatori del presidente del Consiglio sono, come sempre, una folla scomposta che via via crescerà finché Renzi sarà più o meno saldo in sella, di cui fanno parte per esempio a pieno titolo i neo-boiardi pubblici. Nei giorni scorsi c’è stata la crisi del superjet. Il premier doveva partire per il tour sudamericano con il nuovo aereo dello Stato,
usato, ma un gioiellino. Però il gioiellino era ancora nell’hangar per le messe a punto e la delegazione italiana è stata distribuita su due aerei più piccoli. Scoperto su quali dei due viaggiava Renzi, è cominciata una disfida feroce con i privilegiati che avrebbero condiviso la trasvolata con lui e non sul jet di serie b. A quel che hanno riferito le cronache, i più agguerriti sono stati i top manager della Sace e dell’Enel, che, impavidi, hanno minacciato persino di non partecipare al tour presidenziale e di tagliare il loro contributo monetario.
Ai tempi dei governi Berlusconi i lecchini erano un intero popolo, non si ricorda uno (a parte Fini con il suo «che fai, mi cacci?») che abbia mai avuto il coraggio di contraddire pubblicamente il capo. Ma la cortigianeria, diciamo istituzionale, aveva altre regole. A Palazzo Chigi regnava Gianni Letta detto da sempre Letta-Letta, ma il verbo presidenziale lo recava il pregiudicato Luigi Bisignani, condannato in via definitiva a un anno e sette mesi per associazione a delinquere e corruzione. Noto fin dai tempi della tangente Enimont, concordava con Letta le nomine, i siluramenti di banchieri come Profumo, di manager pubblici, di prefetti, di capi delle forze dell’ordine e di spioni. Dava ordini ai ministri e anche alla Rai. I lecchini erano il pane quotidiano. Come l’allora direttore generale Mauro Masi, oggi premiato con un incarico pubblico, che anche prima di prendere un caffè chiedeva il permesso al suo mentore, come hanno dimostrato le intercettazioni telefoniche. Per stare alla cronaca di questi giorni su una tivù minore è andato in onda un dibattito (?) con protagonisti, per l’appunto, Luigi Bisignani e Mauro Masi, presidente Consap, delegato italiano alla proprietà intellettuale, invitati dal giornalista collezionista di consulenze e sponsorizzazioni Enrico Cisnetto.
Bisignani oggi si definisce scrittore e non c’è televisione che non l’abbia a lungo intervistato non solo sulla sua opera letteraria, ma sullo scibile umano, dalla sua riverita opinione politica, alle strategie del Papa e della Chiesa. Finché a Palazzo Chigi regnava Letta-Letta dava la linea all’Eni, la maggiore impresa italiana. Resta famosa la telefonata in cui l’amministratore delegato dell’ente petrolifero Paolo Scaloni chiede al Bisignani cosa debba dire al presidente Berlusconi, con il quale è fissato un incontro per il giorno successivo. Alla Rai a far coppia con Masi c’era – e c’è – Bruno Vespa, l’uomo della politica, suo supremo «azionista di riferimento», sul quale è superfluo spendere parole, perché ciascuno può giudicare da lustri su Rail cosa significa essere debole con i forti e forte con i deboli, mettendosi sempre al vento.
Come capirete, l’aneddotica sul leccapiedismo è infinita in un Paese dove con le lusinghe si può arrivare ovunque, scalzando chi è professionalmente più competente, per cui ci limiteremo alla cronaca più recente. Nelle scorse settimane è stato arrestato a Milano il vicepresidente della Regione Lombardia ed ex assessore alla Sanità Mario Mantovani, detto il faraone, lo squalo o il badante. Quest’ultimo nomignolo è la chiave del suo successo in politica e lo deve al fatto di aver curato per anni mamma Rosa, la mamma di Berlusconi, in uno dei suoi tredici centri medici diurni e undici residenze sanitarie assistite (per la serie dei conflitti d’interesse), ciò che gli procurò eterna gratitudine del capo. Leggenda vuole che la gratitudine si moltiplicò quando mamma Rosa sul letto di morte raccomandò ulteriormente lo squalo al figlio. L’assessore alla Sanità proprietario di strutture sanitarie convenzionate, ricambiò assegnandole la cittadinanza onoraria di Arconate, il suo feudo, e proponendo di intitolarle una piazza. Ma anche l’adulazione ha i suoi rischi, oltre a quello dell’ottavo girone dell’inferno, dove Dante ha collocato i ruffiani, quello di San Vittore, dove Mantovani ora soggiorna.
Dalle poltrone ai libri e al vino. Il rosso di Massimo D’Alema – mi dicono alcuni esperti di fiducia – non è un granché, ma pochi non si sono sperticati a esaltarlo come un orgoglio dell’enologia nazionale. I libri in televisione sono poi il nostro incubo quotidiano. Alcune trasmissioni, come quella di Fabio Fazio su Rai3, vivono con gli uffici stampa delle case editrici e di un presentatore che anche quando ospita politici fa le domande che ciascuno vorrebbe sentirsi rivolgere, senza mai una sbavatura. Adesso c’è la valanga televisiva e giornalistica dell’americano che in Italia ha trovato l’America. Alan Friedman ha scritto My Way, un’agiografia autorizzata di Berlusconi che sembra una poesia di Sandro Bondi, ex adoratore del capo e ora in marcia verso il Renzi, che poetava ispirato a Rosa Bossi, mamma di Berlusconi: Moni dello spirito/ Anima trasfusa/ Abbraccio d’amore/ Madre di Dio. Infatti Dio è il figlio di Rosa Bossi, come ci informa Luigi Amicone, direttore di Tempi, settimanale di Comunione e Liberazione: «Berlusconi non ha niente da temere, solo Dio sa dove può arrivare». Mentre incontrava per diciotto volte B., l’autorevole giornalista americano trattava – come ha riferito II Fatto quotidiano – affari personali per molti milioni di euro con Alessandro Proto, il sedicente finanziere che ha patteggiato nel 2013 una condanna a tre anni e dieci mesi per aggiotaggio e manipolazione dei mercati. L’alluvione televisiva del libro di Friedman sarà seguita a breve da quella dell’ultima opera di Vespa, per la quale la Rai entra in fibrillazione e si mobilita con tutte le sue risorse. Seguiranno magari un Severgnini o un Alain Elkann d’annata, autore settimanale di imperdibili interviste su La Stampa.
Sui giornalisti ha già dato Marco Travaglio nel suo Slurp, ma come dimenticare i casi del grande giornale che ha un intervistatore addetto praticamente a Marina Berlusconi o il parallelo Cromwell-Renzi del Foglio? «Cromwell fu il politico più risoluto ai tempi di Enrico Vili. Molti fili, meno una lama, lo legano a Renzi». Meno una lama. E poi diciamolo, con il professor Angelo Panebianco: a Renzi non si può negare «un nove o un dieci in innovazione culturale». Facciamo dieci.