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 2015  novembre 06 Venerdì calendario

Tutto su Mata Hari, la bella spia e danzatrice esotica, che finì davanti a un plotone d’esecuzione il 15 ottobre 1917. In un libro di Scaraffia

Già da un pezzo, prima ancora che scoppi la guerra e il mondo di ieri (come lo chiamerà Stefan Zweig) vada a rotoli, la Belle Époque non è più così bella. Insieme alla passione di cambiare il mondo e di cambiare la vita, come voleva Rimbaud, sono spariti i colori squillanti e tutto ha un aspetto invecchiato, polveroso, anche i girasoli di Arles, anche il can can. Margaretha Geertruida Zelle, in arte Mata Hari, la bella spia e danzatrice esotica, finisce davanti a un plotone d’esecuzione il 15 ottobre 1917, ed è con questa scarica di fucileria che la Belle Époque termina ufficialmente e comincia l’età successiva: la Mauvaise Époque, che i partiti utopici dei traumatizzati di guerra fascisti e comunisti imporranno con pistole, proclami e bombe a mano prima all’Europa, poi al mondo.
Nel suo nuovo libro, Gli ultimi giorni di Mata Hari, Giuseppe Scaraffia racconta con la consueta sobrietà ed eleganza l’ultimo spettacolo di Mata Hari, dea e donnaccia, che fu condannata e giustiziata (anche se le prove contro di lei «non sarebbero bastate nemmeno per frustare un gatto», come ammise vent’anni dopo lo stesso procuratore che l’aveva spedita al patibolo) a conclusione d’un intrigo in stile John Le Carré. Ballerina di scarso talento, un giorno indiana e figlia di marajah, un altro giavanese e figlia di baronetto, bugiarda e simulatrice compulsiva, Margaretha Geertruida Zelle era in realtà figlia d’un negoziante di cappelli di Leeuwarden e aveva un matrimonio e un paio di figli dietro le spalle quando si trasformò in Mata Hari e prese a calcare le scene (per lo più nuda, cosa che contribuì alla sua popolarità). Senza essere una grande bellezza, altera e glaciale, neanche un filo di pudore, specializzata in danze erotiche molto carnali con birignao induista a piè di lista, Mata Hari allupava sia i maschi (e le femmine), cui si concedeva un po’ per amore e un po’ a pagamento, sia gl’intellettuali fissati con l’esoterismo, la teosofia e le divinità con quattro braccia e un palmo di lingua di fuori (tipo il logo dei Rolling Stones). Erano tutti ai suoi piedi, giovani e vecchi, artisti e bottegai, uomini e donne, e anche se forse non era esattamente una spia, be’, la ragazza era sempre in bolletta e perciò era meglio non confidarle troppi segreti, se a rifischiarli in giro c’era modo di cavarne un po’ di soldi. Niente pudore, e ancor meno scrupoli.
La cella come un treno. Scaraffia, grande burattinaio, mette in scena gli ultimi giorni di Mata Hari chiamando sul palcoscenico, a porgere un saluto, le altre icone morenti della Belle Époque, per esempio il tenebroso Robert de Montesquiou, che farà da modello al sulfureo Barone di Charlus della Recherche proustiana. Compaiono anche alcune delle icone che nel Secolo Breve danzeranno sulle rovine del mondo di ieri come il Dio Shiva danza l’apocalisse nei depliant degli spettacoli di Mata Hari. C’è Ernest Hemingway, ancora giovinetto, che in seguito si vanterà, non meno bugiardo e millantatore di Mata Hari, d’essere andato a letto con la bella spia nel 1918, un anno dopo la sua esecuzione. C’è Louis Ferdinand Auguste Destouches, più tardi Louis-Ferdinand Céline, il quale ancora non ha scritto nulla di buono e ancora non è diventato un antisemita furioso e delirante, ma che a letto con Mata Hari (insieme a un suo amico, la ballerina è insaziabile) forse c’è stato davvero. C’è Virginia Woolf. E ci sono i due Lawrence: Th.E. Lawrence, noto anche come Lawrence D’Arabia, e D.H. Lawrence, autore dell’Amante di Lady Chatterlay. Quest’ultimo è sospettato d’essere una spia crucca, per via della moglie, Frieda von Richthofen, una cugina del Barone rosso, l’asso dei piloti di guerra tedeschi, mentre il primo Lawrence è senz’altro un agente del Secret service e guida le tribù arabe nella guerriglia contro i turchi. Ci sono lesbiche famose. Colette, per esempio, che Gabriele d’Annunzio, un altro che ha tentato la sorte con Mata Hari, tenta invano di sedurre. C’è Arthur Conan Doyle, baronetto per meriti letterari e padre di Sherlock Holmes, che abiura il suo detective campione della ratio per darsi allo spiritismo. C’è Marcel Proust, intento a pratiche autoerotiche particolarmente disgustose nel bordello omosex di cui era il mecenate, oltre che un assiduo frequentatore. C’è Filippo Tommaso Marinetti, che il Poeta Soldato, in un altro quadro degli Ultimi giorni di Mata Hari, definisce «il cretino fosforescente» (dategli torto). C’è il romanziere esotico Pierro Loti (che nessuno legge più, e forse è un peccato). C’è il grande Claude Debussy. C’è Isadora Duncan, una ballerina vera, che al momento vive a New York, non è più giovane e ha preso, sembra, qualche chilo. Tra un paio d’anni Isadora conoscerà a Mosca il poeta Sergej Esenin, di quasi vent’anni più giovane di lei, e ne nascerà una liaison tempestosa nell’Urss dei commissari del popolo, dell’Armata rossa, della lotta alla religione e del comunismo di guerra.
Mata Hari, scrive Scaraffia, va incontro alla morte sorridendo, sempre bella e sempre altera, senza scenate. Rifiuta la benda e, guardando in faccia i soldati del plotone d’esecuzione, pensa che «la cella è come un treno in movimento, a poco a poco quelli che ci salutano», gli amici, i nemici, i figli, gli amanti, «diventano dei puntini e poi più nulla». Anche la bella indiana o giavanese, che forse era una spia e forse no, che forse è stata “bruciata” dai crucchi che ne avevano abbastanza del suo doppio gioco, la sola donna dopo Giovanna d’Arco che sia stata giustiziata da un tribunale francese per motivi politici, più come strega e puttana che come spia, sta diventando un puntino sull’orizzonte, poi più nulla. Di lei parleranno in futuro i film, nessuno memorabile, e i libri, che «sono fatti di libri», a cominciare dai libri che Giuseppe Scaraffia innesta, con dandysmo e consumata ironia, in questo memorabile racconto degli “ultimi giorni” di Mata Hari.