Sette, 6 novembre 2015
Cristo in cornice. Da Giotto a Yves Klein passando per El Greco...
Una delle sequenze più forti (per quanto brevissima) della celeberrima versione cinematografica di Jesus Christ Superstar ci dice qualcosa del rapporto tra l’uomo Gesù e il susseguirsi delle sue rappresentazioni nel corso dei millenni… Siamo vicini all’epilogo della sua vicenda terrena. Nell’orto degli ulivi, mentre tutti dormono ignari di quanto sta per accadere, Gesù chiede al padre di allontanare il famoso “amaro” calice. La musica segue un climax parossistico che culmina nell’attimo in cui Cristo, in tutta la sua debolezza qui umana, crolla a terra e, in pochi secondi, vediamo una successione di sue future raffigurazioni, da semplici schematizzazioni del volto dei primi secoli al trionfo dei dettagli di Hyeronymus Bosch e in particolare della Salita al Calvario, stringendo sempre di più nei dettagli dei volti deturpati e pieni d’odio, trasfigurazione pittorica della nequizia del male che pure accetterà come carico per il riscatto dell’intera umanità, compresa quella di quei volti, di quanto esprimono. Questa lunga citazione iniziale per introdurre un libro strepitoso, capace di attualizzare temi di cui apparentemente si sa tutto ma, come direbbe Hegel, «ciò che è risaputo ci è in quanto tale sconosciuto». Ancora, Ezra Pound scriveva che «il classico è il nuovo che resta nuovo». Ora Gesù Cristo è ben oltre un classico, nella nostra cultura, e altrettanto è nella storia dell’arte. Demetrio Paparoni ne ha raccolto alcuni possibili percorsi interpretativi, di stringente attualità (ed ecco il riferimento a Pound e alla sua frase) e ce ne offre il percorso e le conclusioni nel volume Cristo e l’impronta dell’arte, il divino e la sua rappresentazione nell’arte di ieri e di oggi, in uscita da Skira. È necessaria una premessa. Lo stile di Paparoni è piano e comprensibile a chiunque abbia il desiderio di affrontare quanto il titolo promette. Permettetemi un ricordo personale. Ricordo gli anni del liceo spesi sul manuale del pur eccelso Argan, cercando di raccapezzarmi del suo linguaggio prima che delle opere che spiegava. Ecco, il sermo oraziano “medio” di Paparoni ci prende per mano in alcune delle più complesse questioni della storia dell’arte in toto, riguardanti cioè quello che è senza dubbio il soggetto più rappresentato nella storia dell’arte. Paparoni lo fa attraversando secoli senza un criterio cronologico ma costituendo piuttosto un prisma ricco di lati, ciascuno dei quali abbia ancora qualcosa da dirci, nel 2015, e dicendoci ulteriormente che nel 2015 cose da dirci ne ha ancora tante. Anche e indirettamente è una storia dell’arte della rappresentazione del divino, di Cristo e della sua impronta, ma giustamente la parola “storia” nel titolo non compare mai. Traspare in filigrana nel continuo confronto tra modelli, nelle mutazioni (e mutuazioni) di quello che junghianamente possiamo chiamare un “simbolo” (dal greco “sun-ballo”, tengo assieme; l’opposto di “dia-ballo”, divido, da cui il “diabolico” come forza che divide). “Imago” che unisce i secoli nella diversità delle rappresentazioni. Ciò che resta è “l’impronta”: il Sabatini Coletti ci dà di “impronta” due definizioni che in questo libro convergono: 1) Segno lasciato da un corpo premuto su un materiale cedevole, traccia, orma; 2) Insieme di tratti tipici che caratterizzano una personalità individuale. Demetrio Paparoni si spinge in un corpo a corpo con entrambi i significati, che a un certo punto inevitabilmente si intrecciano.
Il “vero” volto. Le “tracce” che Gesù ci ha lasciato sono la Sindone (lasciando agli scienziati le questioni sull’autenticità, a cui la Chiesa stessa ha sempre lasciato riserve di fronte all’inequivocabilità devozionale) e il ritratto della Veronica. Partiamo da quest’ultima. Paparoni, mostrandoci l’ancora “didascalica” Santa Veronica di El Greco (così come nel suo analogo Santo volto), dove l’artista ci mostra Veronica nell’atto di esibirci “il volto vero” (quasi un calco fotografico, diremmo oggi, e idealizzato) del volto di Gesù, già una cinquantina d’anni dopo, con la serie delle Veroniche di Francisco de Zurbarán (1658) passiamo non più all’illustrazione del “volto vero” ma, appunto, alla sua “orma”, “traccia su un velo”, in dieci variazioni che ne riducono le sembianze a qualcosa di sempre più indistinto eppure riconoscibile. Paparoni, attento alla contemporaneità e al suo debito complesso con il passato, ci presenta le Veroniche dei viventi Paladino e Clemente. Clemente, nella sua serie chiamata Veronica vera ci mostra ritratti sul velo una scimmia, un asino e un capro. Lo sfondo delle tre opere è lo stesso blu usato da Giotto (e sul blu ritorneremo per i rapporti tra Klein e la Sindone). I tre animali simboleggiamo l’umanità universale di Cristo (in piena sintonia con l’accento francescano dato alle creature tutte riassunte in Cristo fattosi uomo come vertice del creato). Non più il Cristo pantocrate quindi, ma il Cristo simbolo panteista dell’universo di cui resta però l’unico legittimo rappresentante.
Orma e icona. Nelle sue Veroniche Mimmo Paladino traduce l’immagine tradizionale del volto di Cristo in un timbro, impronta scarnificata, carbonizzata che ne restituisce le multiple significazioni. Passando invece all’orma del corpo di Cristo per eccellenza, quella della Sindone, Paparoni mostra ancora lavori di artisti contemporanei che a partire da quella sviluppano differenti riflessioni sull’umanità e sul senso religioso. Apparentemente lontano possono sembrare, su un piano di aderenza teologica, le molteplici Antropometrie di Yves Kein, dove l’impronta del corpo sul telo impregnato da quel blu mistico che tende a riassumere il tutto, come nella più articolata ma sempre più scabra ricerca cromatica di Rothko. Riprendendo Paparoni, «Klein trasforma l’impronta corporea blu in una figura archetipica, mostra un uomo o una donna che incarnano l’umanità. Nelle sue antropometrie l’uno si identifica con il genere umano e il genere umano con l’uno». Con il connubio complesso tra orma e icona nel Novecento hanno avuto a che fare molti artisti, e la rassegna che questo volume ci consegna è amplissima e studiata nei minimi dettagli: da Rauschenberg e Susan Weil a Warhol, da James Ensor a Tony Oursler che, ne L’uomo di Torino del 2015, con indubbia potenza iconica ha soprapposto il volto della Sindone con quello di un teschio «virando i colori sulle tonalità di una pellicola radiografica e soprapponendo al volto il tracciato di una mappatura algoritmica di riconoscimento facciale». Ovviamente tutto questo percorso è fatto in costante raffronto con i grandi punti fermi dell’iconografia del Cristo nei secoli (e quindi in ordine sparso da Mantegna a Grünewald a Beato Angelico a Giotto a Caravaggio). Ma l’assunto più interessante del libro, che ne costituisce la novità e la freschezza, è come l’icona e la sua universalità sorpassi il tema della raffigurazione cristiana del Cristo per renderlo un’icona universale. Passando dal Marat di David (in cui l’intensità plastica del ritratto della morte del leader politico è chiaramente ripresa su quella del volto del Cristo morto e l’opera viene posta a confronto direttamente con la Deposizione della croce di Caravaggio) si arriva ad artisti come Marlene Dumas e Nicola Samorì, ma soprattutto ai più interessanti artisti cinesi contemporanei che, provenendo da una tradizione tutt’altro che cristiana, ne assumono la forza iconologica in una chiave surdeterminata, ricchissima di risvolti. Dall’ormai anche da noi celebre Yue Minjun, che ripropone i momenti più classici della vita di Cristo (e delle sue rappresentazioni) nella sua chiave dominata dal sorriso sciocco dei personaggi (che poi hanno sempre la stessa fattezza, la sua), con uno straniamento che non è mai provocazione fine a se stessa (manca, ed è giusto così, un lavoro pure celeberrimo come Piss Christ di Serrano, che esula completamente da questa ricerca), e lo dimostra (tra i tanti esempi di cui il libro è ricco) sempre di Yue Minjun, L’annunciazione del Beato Angelico svuotata da ogni elemento umano, in quella che io ho colto come una tensione irresistibile (quasi incontenibile) verso l’atto che ancora manca.
Estremo Oriente. L’interesse di Paparoni nei confronti della Cina non è immotivato: in pochi decenni, dopo la fine del culto di Mao e della relativa iconografia, la Cina si sta appropriando della storia dell’arte occidentale, che è anche (soprattutto) storia dell’immagine e dell’impronta del Cristo. Tale operazione si rivela anche nel grande lavoro di rilettura di alcune raffigurazioni dell’iconografia cristiana di Wang Guangyi, vero “ponte” tra culture tenendo ferma la possibilità umana di «porre interrogativi sull’inspiegabile, sul mistero dell’arte capace, al pari della fede, di operare una trasfigurazione».