il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2015
Dopo l’assoluzione di Mannino, «nel processo Stato-mafia, la mafia c’è; ma manca lo Stato, a parte la catena di comando del Ros», cioè Subranni, Mori e De Donno, che hanno confermato da tempo la trattativa. «Ora che i politici si sfilano dal processo, vogliono restare lì col cerino in mano a pagare per tutti, o ci dicono finalmente chi li mandò a trattare con la mafia?»
Assolto Calogero Mannino, assolto l’altroieri dal Gup, il processo sulla trattativa Stato-mafia non è affatto morto e sepolto, come vaneggiano tutti i giornali. Intanto perché la sentenza di un Gup con rito abbreviato non impegna minimamente la Corte d’Assise che sta processando gli altri imputati (non è che chi arriva prima vince). Le formule assolutorie possibili erano tre: il fatto non sussiste, il fatto non costituisce reato, non aver commesso il fatto. Le prime due avrebbero inferto una discreta mazzata all’impianto accusatorio, stabilendo che la trattativa non ci fu, oppure ci fu ma non è inquadrabile nel reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. La terza invece, quella applicata a Mannino (con buona pace di Claudia Fusani, che sull’Unità si inventata un inesistente “il fatto non sussiste”), comporta che il fatto-delitto sussiste eccome: dunque la trattativa ci fu, rientra nel reato contestato dai pm, ma le prove su Mannino sono insufficienti o contraddittorie (art. 530 comma 2), dunque non bastano per dire che il reato l’abbia commesso anche lui. L’hanno commesso altri: spetterà all’Assise, che processa “altri”, stabilire se sono quelli giusti. La vera novità è che quello principale diventa sempre più un processo al Ros, oltreché ai boss corleonesi. I politici che ordinarono agli uomini dell’Arma di trattare con Riina e Provenzano tramite Vito Ciancimino, alla sbarra, non ci sono perché non sono stati scoperti, cioè perché l’omertà generale li ha coperti.
C’è l’ex ministro Nicola Mancino, che però risponde “soltanto” di falsa testimonianza per aver coperto successivamente la trattativa: più o meno la stessa accusa (false informazioni al pm) toccava l’altro ex ministro Giovanni Conso, che però è morto. L’unico “politico” superstite è Marcello Dell’Utri, che fra il 1992 e il ’94 inventò Forza Italia: ma, più che un politico, va considerato un uomo di mafia prestato alla Fininvest negli anni ’70-80 e alla politica negli anni ’90. Quindi, nel processo Stato-mafia, la mafia c’è; ma manca lo Stato, a parte la catena di comando del Ros: l’allora comandante Subranni, l’allora vicecomandante Mori e il di lui braccio destro De Donno. Che abbiano trattato con Ciancimino non c’è dubbio: l’hanno ammesso essi stessi. Negano, com’è ovvio, di aver commesso un reato: ma non negano il fatto. L’altroieri, nei suoi delirii post-assoluzione, l’ex ministro Mannino ha detto: “Era ridicolo pensare che i carabinieri obbedissero a un ministro”.
Una sciocchezza che offende la sua intelligenza: i carabinieri devono obbedire al governo, da cui dipendono gerarchicamente. E proprio questo è il punto, che Mannino ha involontariamente (?) focalizzato: chi ordinò al Ros di trattare con Riina e Provenzano tramite Ciancimino? Nella primavera-estate ’92, si accavallano due governi: quello morente di Andreotti, con Scotti all’Interno, Rognoni alla Difesa, Martelli alla Giustizia (e i siciliani Mannino all’Agricoltura e Vizzini alle Poste); e quello nascente di Amato, con Mancino all’Interno, Andò alla Difesa, Martelli e poi Conso alla Giustizia. I nomi di Mancino e Rognoni compaiono nell’inchiesta: il primo chiamato in causa da alcuni pentiti e da Ciancimino jr. (ma anche da alcune strane esternazioni di Riina), il secondo solo dal figlio di don Vito. Che cita pure Violante, allora presidente dell’Antimafia, sostenendo che suo padre volle fosse messo al corrente della trattativa per “coprirsi a sinistra”. Violante ha sempre negato, ma si è pure ricordato che nell’estate ’92 Mori insisteva perché incontrasse in segreto Ciancimino e lui rifiutò (ma non avvertì la Procura di Palermo), impegnandosi a convocare don Vito in Antimafia (ma poi non lo fece).
Andreotti, Andò, Mannino e Martelli erano nella lista nera dei politici da eliminare perché considerati “traditori” da Cosa Nostra, insieme a Salvo Lima e a Ignazio Salvo (gli unici assassinati: gli altri si salvarono grazie alla trattativa). Martelli, come Scotti, si batté fino all’ultimo per la linea dura sul 41-bis; poi però Scotti fu rimpiazzato da Mancino e Martelli da Conso, e la linea molle prevalse fino alla revoca del 41-bis a 334 mafiosi dopo le stragi del ’93. Questi sono, in sintesi, i brandelli finora emersi del quadro politico della trattativa. Una cosa è certa: Mori e De Donno non sono due schegge impazzite né due venduti alla mafia. Se Mori trattò prima con Riina poi con Provenzano e in seguito, dopo la consegna di Riina, si prodigò per non perquisirne il covo e per non catturare Provenzano pur avendolo a portata di manette a Mezzojuso, non fu per un’estemporanea iniziativa individuale. Come carabiniere, aveva il dovere di avvertire il Comando generale, ma non lo fece. Come ufficiale di polizia giudiziaria, aveva l’obbligo di avvertire la Procura, ma non lo fece. Qualcuno può credere che si avventurò in quel campo minato, col rischio di essere sconfessato e degradato sul campo, senza coprirsi le spalle con qualcuno del governo? Questo sì sarebbe ridicolo.
La riprova è che, quando Giovanni Brusca rivelò la trattativa nel 1996 e Mori e De Donno la confermarono, non furono né sconfessati né puniti. Anzi, promossi: Mori divenne comandante del Ros, direttore del Sisde e, una volta in pensione, consulente di Alemanno per la sicurezza di Roma e garante – in tandem con De Donno – della trasparenza degli appalti Expo per la giunta Formigoni (con i risultati a tutti noti). Ora che i politici si sfilano dal processo, vogliono restare lì col cerino in mano a pagare per tutti, o ci dicono finalmente chi li mandò a trattare con la mafia?