La Stampa, 6 novembre 2015
Michael Moore offre alla Casa Bianca la lista dei paesi da invadere. E l’Italia gli piace tanto
Comincia con l’Italia. Perché? «Mi diverte. E poi la mozzarella di bufala e i pomodorini Pachino sono straordinari». Scherza Michael Moore se gli si domanda che cosa gli sia piaciuto del nostro Paese, quando vi ha girato parte del nuovo documentario
Where to Invade Next, atteso nelle sale Usa il 23 dicembre.
Cappellino da baseball, felpa scolorita, passo lento e schiena curva, Moore ha proiettato il film a Chelsea, a New York, per un pubblico ristretto, madrina della serata Susan Sarandon. «Con questo film vi incazzerete così tanto che vi verrà voglia di essere più attivi», ha detto lei. E su Moore: «Combatte per le mie stesse cause. Lo amo».
«È stato molto divertente», dice subito Moore con un sorriso, anche se è arrabbiato. Il suo film si è preso la R di «Restricted», negli Usa i minori di 17 anni potranno vederlo solo se accompagnati da adulti. «E sapete perché? – chiede – La violenza del film è quella dei poliziotti di New York che uccidono Eric Garner, disarmato, su un marciapiede di Staten Island; di droga si parla a proposito del Portogallo, dove per 15 anni non hanno arrestato neanche un consumatore; la nudità è quella di un tedesco alle terme: il sistema sanitario in Germania paga tre settimane in una spa per rimettersi dallo stress».
Tre continenti, 8 nazioni
Where to Invade Next è una «crociata» non per conquistare terre dalle quali gli americani possano ottenere altro petrolio, ma per scoprire i valori alla base delle società nel mondo in cui gli esseri umani sono rispettati e la qualità della vita è degna.
La carrellata attraverso tre continenti e otto Paesi comincia proprio da noi. Moore segue una coppia di toscani che fanno jogging ogni giorno e raccontano i loro viaggi. Da buon americano, si stupisce dei cinque mesi di maternità pagata, delle tredicesime, delle pause pranzo di due ore. Nelle fabbriche che visita ammira la vivibilità, il rapporto padrone-operaio. Se ne innamora, al punto che sembra raccontare una favola.
Della Francia apprezza il cibo, perfino nelle scuole, dove ai ragazzini a fine pasto viene offerta una porzione di Camembert, crème caramel o gelato alla vaniglia. Qui non si beve Coca Cola ma acqua, e le «french fries», cibo quotidiano dei coetanei americani, in mensa si vedono due, tre volte l’anno.
La Finlandia, dove approda subito dopo, lo colpisce per il sistema scolastico. Solo venti ore a settimana. «La scuola deve servire a trovare la felicità», gli racconta un professore. A Moore suona familiare: «La ricerca della felicità non era, insieme alla vita e alla libertà, uno dei pilastri della Dichiarazione di indipendenza scritta da Thomas Jefferson nel 1776?».
In Slovenia scopre che le università sono gratuite per gli studenti anche stranieri. E dire che in America molti ragazzi sono costretti a fare debiti per studiare. Il film è intessuto di paragoni inevitabili agli occhi di un americano del Michigan fiero del suo Paese ma deluso dal percorso di una democrazia che si allontana sempre più dalla sua essenza. E che quando approda in Germania, si rende conto che le 36 ore di lavoro a settimana lasciano il tempo di sedersi al caffè con gli amici e permettono alla classe media, schiacciata in America, quasi scomparsa, di esistere e mantenere la propria dignità.
Cosa c’è dietro alla farsa
In Norvegia anche nelle prigioni di massima sicurezza ai detenuti sono concesse lezioni di musica, messe a disposizione intere biblioteche. E in Tunisia dal 1975 è legale l’aborto. Ma lì non perdono tempo a guardare sul web le foto delle sorelle Kardashian. «L’avete inventato voi l’Internet – si sente dire da una giornalista locale -, possibile che non riusciate a capire come usarlo in modo migliore?»
Il viaggio di Moore sembra colorato ed effervescente, ma in realtà è intessuto di malinconia. Dietro alla farsa paradossale della proposta di invasione, si nasconde la delusione di chi vede come il «sogno americano» sia stato tradito e di quanto ingiustificato sia il complesso di superiorità di cui soffre il suo grande Paese.