6 novembre 2015
In morte di René Girard
Alberto Melloni sul Corriere della Sera
Comprendere «nello stesso momento, perché i credenti dapprima, e sul loro esempio i non credenti poi, sono sempre passati vicino al segreto, peraltro così semplice, di ogni mitologia»: è stata questa l’ambizione e l’esito della ricerca del francese René Girard, che si è spento a Stanford, negli Stati Uniti. Una ricerca che era impossibile (lo dimostra l’intervista autobiografica del 1994 con Michel Treguer) incasellare nei riquadri angusti delle discipline accademiche.
All’inizio della sua carriera Girard è un paleografo dalla solida base di medievista, costruita nella Parigi della Liberazione dove si laurea, lui avignonese classe 1923, con una tesi sulla vita privata del XV secolo.
Negli Stati Uniti, dove trova cattedra e famiglia, è un docente di Letteratura francese, che spreme il testo in un modo che da cinquant’anni spinge filosofi, antropologi, psicoanalisti, teologi ad annettersi Girard o a ripudiarne le conclusioni costruite in un sistema complesso, al cui fondo sta la chiave del suo pensiero: cioè la scoperta del desiderio mimetico, che appare già in Menzogna romantica e verità romanzesca del 1961. Quel desiderio che porta a desiderare quel che l’altro desidera (per questo mimetico) e che – a differenza del desiderio «oggettuale» freudiano della libido, che ha bisogno di una filosofia della coscienza – genera un dinamismo triangolare fra oggetto del desiderio, l’altro desiderante e il soggetto desiderante.
Da questa ricerca iniziata con Dostoevskij arriva l’opera che ne fa un filosofo e un antropologo della religione: La violenza e il sacro del 1972 (Adelphi, 1980) elabora una teoria della genesi della religione. Nella mitologia e nella sua elaborazione filosofica e letteraria Girard ritrova l’atto iniziale di occultamento che «inganna la violenza»: il «sacro» che assorbe la violenza destinata fatalmente a nascere e la riversa su una entità non vendicabile e insieme in apparente continuità con coloro al posto dei quali viene sacrificato. Così il capro espiatorio placa e fonda la società in questa ombra religiosa che è «il sentimento che la collettività ispira ai suoi membri, ma proiettato fuori dalle coscienze che lo provano, e oggettivato».
La sfida alla antropologia e alla psicoanalisi (e dunque a Lévi Strauss e a Freud) implicita in questa opera capitale del Novecento prosegue nel testo forse più complesso e suggestivo di Girard, che è il dialogo-intervista con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort Sulle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, del 1978 (Adelphi 1983): una fitta disamina che apre al lungo corpo a corpo con il testo biblico, in una ricerca che non è «una soluzione di ripiego rispetto alle ambizioni della filosofia, una saggia rassegnazione. È un’altra maniera di soddisfare quelle ambizioni».
Girard infatti scopre con una sua esegesi che la stratificazione ermeneutica si posa sul testo neotestamentario, in vista di una riconquista «vittimaria» del racconto: che invece, nella vicenda concreta del Gesù storico, neutralizza il meccanismo del capro espiatorio. La potenza teologica di questa intuizione non sarà colta fino in fondo (solo Il vitello d’oro e L’estasi del profeta di Pier Cesare Bori andarono in quella linea e oltre): ma assumendo la «propria» religione l’ebreo Gesù ne libera la forza demistificatoria e smaschera la pretesa cristiana di universalizzarne il messaggio riducendolo a «dieci comandamenti» che, in nome di una etica per tutti, esalta la «unanimità della violenza».
Scoperta capitale, questa di Girard, anche per la storia: perché se la vittima diventa «Agnello di Dio» ed esce dalla sua passività regolatrice, l’uomo si vede riconsegnata la propria violenza, il religioso la propria immanenza e Dio la trascendenza sua. Gesù di Nazareth, la vittima «perfetta ed innocente» che sta dalla parte delle vittime e che come tale ingloba la fine ultima del tempo, consegna alla storia una «responsabilità» (per dirla con Emmanuel Lévinas).
In Portando Clausewitz all’estremo del 2007 (Adelphi, 2008), Girard osserva: «Il cristianesimo è la sola religione che abbia previsto il suo fallimento: questa prescienza è nata come apocalisse. Infatti è nei testi apocalittici che la parola di Dio è più energica, ripudiante quegli errori che sono interamente colpe umane che sono sempre meno inclini a riconoscere i meccanismi della loro violenza. Quanto più persistiamo nell’errore nostro, tanto più forte la voce di Dio emerge sulla devastazione. (...) Una volta nella nostra storia la verità sull’identità di tutti gli umani è stata pronunciata, e nessuno ha voluto udirla; invece ci siamo concentrati sempre più ossessivamente sulle nostre false differenze».
Le false differenze di cui, come spiega nella produzione degli ultimi anni, la violenza si ripresenta nella sua «forma di sacro corrotto»: l’immobilismo di quel «Satana» che è il nome comune di tutte le «escalation verso l’estremismo» deve essere sfidato alla radice o nel suo «inizio». Non con effusioni effimere fra «moderati», ma con l’intelligenza urticante che sa che «cercare conforto è sempre un modo di contribuire al peggio».
Roberto Esposito su Repubblica
Che René Girard sia stato uno dei pensatori più profondi e originali del nostro tempo è un’evidenza innegabile. Spostatosi dalla Francia in America, insegnando a lungo nelle università John Hopkins e Stanford, dove è morto mercoledì a 91 anni, ha attraversato tutti campi del sapere umanistico, dalla critica letteraria all’antropologia, alla filosofia, influenzando anche gli studi di psicoanalisi e l’esegesi biblica. Si può dire che la sua possente energia ermeneutica scaturisca, come un fascio di luce intensa e penetrante, da una intuizione originaria, continuamente rielaborata attraverso l’analisi
dei testi più vari, capace di fornire una interpretazione unitaria dell’intera esperienza umana. Si tratta di qualcosa da sempre sotto gli occhi di tutti, ma, come spesso accade, proprio per questo rimasta a lungo celata, che Girard riconduce al carattere mimetico del desiderio. Come fin dalla sua prima grande opera,
Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani 1965), egli riconosce nei romanzi di Stendhal e di Flaubert, di Proust e di Dostoevskji, che il desiderio ha una struttura non binaria, ma triangolare. Diversamente da quanto pensava Freud – che pure, con Lévi-Strauss e a Durkheim, è stato forse l’autore che lo ha più influenzato – Girard ritiene che il desiderio umano non sia rivolto direttamente al proprio oggetto, ma passi per la mediazione di un terzo termine, costituto dal desiderio dell’altro. Come si desume anche dall’esperienza comune, tanto più nella società dei consumi, noi desideriamo quello che gli altri desiderano e precisamente per questo motivo.
Ciò significa che la società è naturalmente preda di una violenza insostenibile, la quale può essere fronteggiata solo da un potente dispositivo immunitario, che Girard individua nel sacrificio vittimario di un capro espiatorio. Tutti contro uno, uno al posto di tutti. La violenza, concentrata su un’unica vittima, mette in salvo l’intera comunità, proteggendola dalla sua naturale tendenza all’autodistruzione. Secondo quanto l’autore teorizza nel suo libro più conosciuto, La violenza e il sacro (Adelphi 1980), la vittima, scelta per le sue caratteristiche somatiche, e magari anche razziali, insieme catalizza la crisi e restaura la pace, acquisendo così uno statuto sacrale. Per millenni la civiltà si è riprodotta attraverso la ripetizione di quest’evento sacrificale, raccontato da tutti i grandi miti – naturalmente dal punto di vista dei persecutori. Come ancora nel cuore del Novecento hanno ripetuto i nazisti, assumendo a vittima sacrificale un intero popolo, solo la sua distruzione avrebbe sanato il mondo da una malattia mortale. Ma in questa storia di sangue Girard individua una svolta decisiva nel Cristianesimo. I Vangeli raccontano un mito sacrificale in apparenza non diverso dagli altri. Anche nel caso della Crocifissione, un uomo, che si proclama Dio, è circondato da una folla che lo colpisce a morte, ricostituendo il proprio equilibrio intorno al suo corpo deriso e violato. Ma con la differenza rilevante che questa volta il racconto è condotto dal punto di vista della vittima. Da quel momento, allorché sulle “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” – è il titolo di un altro libro di Girard (Adelphi 1983) – si squarcia il velo, tutto è destinato a cambiare. Ciò non significa che la violenza sia finita. Anzi, una volta crollato l’ordine sacrificale, la minaccia che pesa sugli uomini si è ancora più estesa. Ma con essa si è estesa anche la consapevolezza dell’incantesimo che ci tiene prigionieri e dunque anche la possibilità di poterlo, un giorno, spezzare. Quella che Girard ha costruito è un’ipotesi che non pretende di essere positivamente verificata secondo un metodo scientifico. Ma che ha dalla sua non solo un singolare fascino, ma anche una potenza esplicativa difficilmente contestabile. Oggi che il sapere va sempre più frantumandosi, la forza dell’opera di Girard è quella di una sintesi che riesce a conferire un significato unitario, anche se non tranquillizzan- te, all’intera storia umana. Più che contenerla, si può dire che questa sia contenuta dalla violenza di un desiderio mimetico che oppone fra loro gli uomini, tutti alla caccia delle medesime prede. L’unico modo per uscirne sarebbe quello di vincere quest’istinto, aprendoci alla logica cristiana dell’amore.
Certo, non sono poche le obiezioni che si possono rivolgere a questa straordinaria costruzione intellettuale. Da quella, di ordine storico, che la civiltà cristiana non ha certo prodotto un numero di vittime minore rispetto ad altre esperienze, a quella, di tipo teologico, che il sacrificio del Figlio resta da troppi punti di vista all’interno della logica del sacrificio. Il presupposto del pensiero di Girard è che una forma di reale demitizzazione sia impossibile. Ciò che si può fare è rovesciare il mito, rintracciando nel suo fondo oscuro una diversa luce. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà, senza provare in qualche modo a dimenticarla o a negarla. Un’opera come quella di Girard ci ha costretto a confrontarci con i tratti più enigmatici della nostra condizione.
•••
Massimiliano Panarari sulla Stampa
Ultranovantenne, si è spento René Girard, e con lui se ne va un’altra figura centrale delle scienze sociali del Secolo breve. Nonché uno di quegli intellettuali francesi che hanno dominato il dibattito culturale del secondo Novecento, portando nelle università statunitensi le teorie e le metodologie dello strutturalismo (e del post-strutturalismo), re-impacchettate Oltreoceano con l’etichetta di French Theory. Nato ad Avignone il giorno di Natale del 1923, fece – nemo propheta in patria – una carriera accademica quasi tutta a stelle strisce, tra Duke University, Johns Hopkins e Stanford, fino ad ascendere infine, nel 2005, al ristrettissimo «club» (un autentico Olimpo) degli «immortali» dell’Académie française.
Girard, che aveva esordito come archivista-paleografo, è stato un pensatore eclettico ed estremamente influente, in grado di attraversare gli steccati disciplinari nello sforzo di fondare un’antropologia volta all’interpretazione generale e «razionalistica» dei comportamenti dell’umanità, mettendo insieme critica letteraria, psicologia, etnologia e studio delle religioni. Ed è proprio il fenomeno religioso, letto sulla scorta di Durkheim e di Freud (che tanto hanno pesato sulla sua formazione, ma dai quali poi si separò, diventando altresì l’antagonista di Claude Lévi-Strauss), a risultare al centro delle sue riflessioni, che muovono dall’intuizione del desiderio mimetico e «triangolare», esplicitata nel libro seminale del 1961 Menzogna romantica e verità romanzesca.
Il desiderio si rivela appunto «triangolare» dal momento che tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato si colloca un mediatore – il modello – che indica gli oggetti verso cui indirizzarlo. Ma è anche, piuttosto di frequente, un rivale; e Girard approda così all’altra idea fondamentale, quella della rivalità mimetica, tra capro espiatorio e cristianesimo (al quale si converte) che fa saltare la struttura omicidiaria delle società antiche con il paradigma della vittima innocente (Gesù Cristo).
«Intellettualmente» cristiano (poiché il sacro e le istituzioni religiose assicurano la coesione della società) e, al tempo stesso, «Darwin delle scienze umane», come lo celebra la «sua» Università di Stanford; se difatti la teoria della selezione naturale delle specie costituisce il fondamento razionale per la comprensione della varietà delle forme di vita, col meccanismo vittimario lo studioso francese ha inteso offrire il principio esplicativo razionale e unitario della pluralissima diversità delle forme sociali e culturali dell’umanità.
Il «girardismo» (ipotesi non suscettibile di verifica empirica a causa dei tempi lunghissimi, precisamente come il darwinismo) rappresenta dunque, per molti versi, un’estensione della biologia al dominio sociale, che ha peraltro trovato un insperato e insospettabile sostegno nella scoperta scientifica dei neuroni specchio. E Girard, per rimanere nel grande regno della natura (citando un suo editore italiano, Roberto Calasso, che citava a sua volta Isaiah Berlin), è stato uno degli ultimi «porcospini» che sanno, impareggiabilmente, «una sola grande cosa». A giorni uscirà Il tragico e la pietà (Edizioni Dehoniane, Bologna), il suo libro con un altro «grande di Francia», Michel Serres.
***
Camillo Langone sul Giornale
Si è spento il più grande dei cervelli in fuga. René Girard era nato nel lontano 1923 nella già papalina Avignone, figlio di un bibliotecario anticlericale, ma per un genio cattolico, per il sommo genio cattolico del nostro tempo, non c’era spazio né in Francia né nel resto d’Europa e così dopo gli studi a Parigi dovette andarsene negli Usa, come tanti cervelli prima e dopo di lui. Il suo nome è legato alla prestigiosa università di Stanford, località californiana dove ha insegnato e dove è morto, però prima di approdarvi fu costretto a un lungo pellegrinaggio nella provincia americana, Bloomington, Baltimora, Bryn Mawr, Buffalo, sai che allegria.
L’Europa non se lo meritava, Girard. Ma tutti quegli anni spesi a insegnare letteratura nei college, a chissà quali somari, gli permisero di scoprire che dentro i grandi classici, dentro le tragedie greche, dentro la Divina Commedia, dentro Madame Bovary, c’era un nucleo comune che a sua volta si ritrovava nella Bibbia. E che quel nucleo conteneva il segreto dei comportamenti umani. Quindi Girard va misurato non con gli altri pur notevoli esuli che insegnarono a Stanford, Nabokov e Voegelin, ma con giganti del pensiero quali Nietzsche e Freud che nei suoi numerosi libri analizza, utilizza, critica e supera. Smonta la psicanalisi dimostrando che l’uomo agisce non in base alla propria interiorità ma agli stimoli esterni: «La radice di ogni conflitto è la competizione, la rivalità mimetica tra le persone, i Paesi, le culture. La competizione è il desiderio di imitare l’altro per ottenere le stesse cose che lui / lei ha, se necessario attraverso la violenza». Il desiderio mimetico è il passepartout girardiano, la chiave che apre tutte le porte della conoscenza. Il desiderio di essere come gli altri diventa, per competizione, per invidia, stimolo a scagliarsi contro gli altri e questo spiega innumerevoli disastri passati e presenti: l’odio islamico verso l’Occidente, i linciaggi mediatici, la caccia all’untore di Alessandro Manzoni e le monetine a Bettino Craxi, perfino l’anoressia. Spiega anche, e mi dispiace comunicarlo alle donne romantiche in ascolto, l’amore. O quantomeno alcune forme d’amore. Girard demitizza, quasi dissacra questo sentimento e forse lo fa senza volerlo, semplicemente tirando le somme dei suoi studi su Shakespeare. Leggendo Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate e La dodicesima notte ha notato che il desiderio si rafforza con la frustrazione e non con l’appagamento dei sensi. «Nelle commedie scespiriane tutti gli innamorati si credono incarnazioni dell’amore vero, esprimendo indipendenza dal resto del mondo. Se questo amore vero fosse così indipendente come pretende di essere, i due amanti si accontenterebbero della loro mutua presenza senza mai impelagarsi con gli altri. Invece le cose vanno in modo molto diverso. L’amore vero scoppia sempre in presenza di qualche ostacolo».
Lungi da me voler demitizzare Girard, l’uomo che mi ha insegnato a guardare la società e l’uomo con un realismo più convincente, e meno disperato, di quello di Machiavelli, eppure questa riflessione mi sembra l’edizione colta del vecchio detto «In amor vince chi fugge». E al contempo la premessa alla scoperta dei neuroni-specchio, che fanno di ogni uomo, in parte, una scimmia.
E perché Girard supera, almeno per capacità di analisi della religione, Nietzsche? Perché il filosofo tedesco «non vede che la presa di posizione evangelica deriva da una resistenza eroica al contagio violento, dalla chiaroveggenza di una piccola minoranza che osa opporsi al gregarismo mostruoso del linciaggio dionisiaco». Nietzsche considerava il cristianesimo una religione da schiavi, Girard sulla base del Vangelo (testo molto stampato ma evidentemente molto poco letto) dimostra invece che alla sua origine c’è un nucleo di uomini talmente liberi da non aggregarsi alla maggioranza ululante e all’apparenza vincente che mandò Cristo sulla croce al posto di Barabba. Si capisce che non era un superdemocratico, l’antropologo-filosofo appena morto a Stanford, era un monarchico (lo motiva razionalmente in Portando Clausewitz all’estremo) che osservava con poca stima parlamentari e presidenti: «L’abilità politica quasi sempre consiste nel lasciarsi andare al mimetismo collettivo».
Non dirò che era di destra (di una destra divina ed extraparlamentare, chiaro) solo perché per la sua libertà intellettuale già ha dovuto pagare il caro prezzo dell’esilio: figuriamoci cosa succederebbe alla sua opera se venisse sgamato politicamente.