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 2015  novembre 06 Venerdì calendario

Il primo giorno del processo cosiddetto “Mafia Capitale”, simile a uno show e con i difensori che tentano di ridurre tutta la questione a una piccola faccenda, a un «processetto»

ROMA I n fila per depositare la richiesta di costituirsi parte civile, con l’obiettivo di ottenere il risarcimento danni dai condannati, tra cinquanta e più avvocati ce n’è uno che trent’anni fa fece la stessa cosa nell’aula-bunker dell’Ucciardone, a Palermo, nel maxiprocesso a Cosa nostra. È Alfredo Galasso, ormai settantacinquenne, ex deputato tornato a frequentare i palazzi di giustizia. Nel 1986 assisteva i familiari di un morto ammazzato, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; oggi è qui per conto di Confindustria, che lamenta la violazione della libertà d’impresa e della libera concorrenza da parte degli imputati di Mafia Capitale.
«Anche a Palermo c’era chi negava l’esistenza di Cosa nostra, proprio come adesso c’è chi afferma che Mafia Capitale è solo un’invenzione – dice Galasso, a proposito di paragoni tra passato e presente —. La differenza è che allora si processava solo il primo livello, la manovalanza, qui invece compaiono anche il secondo e il terzo: i collusi nella pubblica amministrazione e i politici, tra assessori e consiglieri regionali. Altro che mondo di mezzo, qui c’è il mondo intero!».
Avvocato Galasso a parte, a ricordare il processo alla mafia siciliana (che era maxi davvero, 468 imputati; qui sono appena un decimo) c’è la folla delle grandi occasioni: tanti avvocati, pubblico di curiosi, frotte di giornalisti, compresi alcuni che abitualmente frequentano il Transatlantico di Montecitorio; del resto da mesi la cronaca politica s’intreccia con l’indagine ora sfociata nel dibattimento. Mancano gli imputati nelle gabbie; all’Ucciardone c’era Liggio che dietro le sbarre sfoggiava il sigaro cubano e il cappotto di cammello, mentre oggi i detenuti sono tutti collegati in videoconferenza. A cominciare dal presunto capo dell’organizzazione, Massimo Carminati; la sua sagoma appare sfocata nel teleschermo che riprende una saletta del carcere di Parma.
L’aula che ospita la prima udienza è intitolata a Vittorio Occorsio, il magistrato che negli anni Settanta conduceva in solitudine le inchieste sull’estremismo nero ma non fece in tempo a indagare su Carminati perché il killer neofascista Pierluigi Concutelli lo tolse di mezzo nel 1976. Quarant’anni dopo Carminati è alla sbarra per una vicenda che tocca ancora la politica, ma per tutt’altra strada: non contrapposizione al potere bensì collusione, di qualunque colore esso sia, attraverso la corruzione e l’assegnazione pilotata degli appalti. Un sistema talmente pervasivo e condizionante che s’è fatto mafia, secondo l’accusa. Tuttavia l’avvocato dell’ex estremista nero, Bruno Naso evoca «il cosiddetto terrorismo» quando ricorda che a Roma si sono fatti fior di dibattimenti con centinaia di imputati pericolosi e detenuti, regolarmente presenti, senza ricorrere a questa diavoleria delle videoconferenze. «Erano fatti e processi molto, ma molto più seri di questo», provoca Naso.
Parla per rivendicare il diritto di altri due suoi assistiti (Carminati non può per legge, essendo ristretto ai rigori del «41 bis») di venire in aula, ma soprattutto per sminuire la costruzione dei pubblici ministeri. E l’accusa di mafia. «Questo è un processetto, appositamente dopato, montato da una campagna mediatico-giudiziaria con precise finalità, ma sempre processetto resta!», si accalora. Gli replicherà il pubblico ministero Giuseppe Cascini: «Io vorrei discutere di diritto, ma finora non ne ho sentito parlare».
È il cuore della disputa (questa sì mediatica, molto più che giudiziaria come invece dovrebbe essere) che si agita intorno al processo; ci si divide tra sostenitori dell’associazione mafiosa e detrattori dell’accusa («è solo una banda di cravattari romani») come se fosse una discussione da bar. Invece è un processo penale, sebbene la prima udienza assomigli più a un convegno con centinaia di invitati, quelli dove uno parla, pochi ascoltano e in platea si chiacchiera. Accade da subito, durante l’appello degli imputati, con i tre giudici del tribunale – due donne e un uomo – che a fatica riescono a vedere qualcosa oltre la prima fila di toghe assiepate davanti a loro; e poi quando si affrontano le questioni preliminari.
A proposito delle riprese televisive l’avvocato Filippo Dinacci, difensore dell’ex presidente del consiglio comunale Mirko Coratti (assente), proclama la sua contrarietà: «Non capisco tutta questa attenzione, non vedo nessun interesse sociale in questo dibattimento, è uno dei tanti che si celebrano ogni giorno per reati di criminalità organizzata». Parole che suonano come uno sberleffo alle conseguenze politiche provocate dall’inchiesta, prima ancora che approdasse in aula. È la strategia di molti difensori: abbassare il profilo per provare a spegnere telecamere e riflettori accesi con gli arresti di un anno fa, riportare tutto a un normale processo di corruzione. Ma nella kermesse della prima udienza è difficile.
«Sembra un grande show, forse ci voleva un teatro», commenta il segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi, consigliere comunale uscente venuto anche lui a costituirsi parte civile. Lo dice per paradosso, ma la giustizia italiana ha visto anche questo: un processo in un teatro, quello per il naufragio della Concordia. Qui almeno siamo all’interno del tribunale. E dalla prossima volta ci si trasferisce a Rebibbia, nell’aula costruita accanto al carcere ai tempi del terrorismo. Un altro tocco da maxiprocesso.