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 2015  novembre 05 Giovedì calendario

Quattro chiacchiere con il banchiere italiano più influente in America, ovvero Alberto Cribiore

Ad aprire il corteo della festa più importante per gli italo-americani ci sono stati, in passato. Frank Sinatra, Luciano Pavarotti e il banchiere Joseph R. Perella. Quest’anno, per la Columbus Parade del 13 ottobre, nel ruolo di Grand Marshal è stato scelto un altro simbolo italiano a New York, il banchiere Alberto Cribiore, una delle figure più influenti al mondo nella finanza, pioniere del private equity mondiale, a Wall Street dal 1975. Giunto negli States per curare gli investimenti della famiglia Agnelli come vicepresidente di Ifi International, poi ai vertici di Warner Communications, co-presidente di Clayton Dubilier&Rice, già presidente di Merrill Lynch e ora vicepresidente dell’Institutional Clients Group di Citigroup.
Banchiere, ma prima di tutto italiano e orgoglioso della parata che rende omaggio allo spirito d’esplorazione e al coraggio che ispirarono la spedizione di Cristoforo Colombo nel 1492 e che coinvolge circa 40mila persone. «In Italia siamo bravi in tutto ciò che facciamo, meno che nel senso di comunità. La parata annuale è la festa degli italiani americani ed è molto sentita qui negli Stati Uniti. Dà la possibilità di scoprirsi parte di una stessa cultura e di valori comuni. Quindi di riconoscersi, almeno una volta all’anno. Inoltre, l’evento permette di raccogliere fondi per provvedere alla formazione di giovani italiani americani bisognosi, per dare loro la migliore educazione sia al liceo, sia all’università», ha commentato il banchiere.
Dopo 40 anni a New York, si sente più italiano o americano? E come è cambiata l’immagine dell’Italia vista dagli Stati Uniti?
«Ho tutti e due i passaporti ma mi sento profondamente italiano. Confesso che se non mi avessero permesso di averli entrambi non avrei rinunciato a quello italiano, ma sono felice di non aver dovuto scegliere. Per quanto riguarda la cultura, sono certamente italiano: mi è più affine l’opera del jazz. Dal punto di vista del lavoro, invece, sono più americano. L’Italia ora come ora è vista come una regione mediterranea dell’Europa, quindi nel bene e nel male ha perso un po’ della propria identità. Nel 1975, quando c’erano ancora Federico Fellini e Luchino Visconti, era un paese all’avanguardia dal punto di vista culturale e molto importante politicamente per la vicinanza geografica al blocco sovietico. Un’evoluzione dunque c’è stata. Ma resta che l’Italia è di moda, è adorata. Tutti vogliono andare in Italia e i ristoranti italiani hanno soppiantato perfino quelli francesi».
Come è cambiata, invece, la finanza a New York dagli anni 70 a oggi?
«Come dal giorno alla notte. Se a quel tempo la metropoli era il centro finanziario d’America, ora lo è del mondo. In quegli anni gli Stati Uniti attraversavano una crisi profonda, i tassi d’interesse stavano crescendo e la città aveva problemi enormi. Il capitalismo, soprattutto, era in discussione. Mentre ora è tutto cambiato».
Li ripresa è solida e il mercato attualmente è sano?
«Sì, la ripresa è solida. Quello che bisogna domandarsi, però, è cosa ci sia dietro l’angolo. Il mercato dal canto suo è sano, ma non è perfetto. Le sue regole sono sempre un passo indietro rispetto alla capacità degli operatori di immaginare modi diversi di agire. I governanti dovrebbero regolare il mercato assicurandosi che funzioni in modo efficiente, trasparente, giusto».
Fa bene Janet Yellen, a capo della Fed (Banca centrale degli Stati Uniti), a rallentare il rialzo dei tassi e quali sono i rischi?
«Sono decisamente d’accordo con la scelta. C’è da dire che la Fed è ora in una posizione più difficile rispetto al passato. Oggi è la banca centrale del mondo e non può condurre un discorso di economia monetaria dimenticandosi di ciò che accade a Francoforte o Beijing o in Brasile».
L’Italia, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, è stata una sorpresa positiva nelle recenti stime di crescita del Fondo Monetario Internazionale. Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi in esclusiva a Class Cube ha detto che l’Italia è tornata ma questo è solo l’inizio. Come è cambiata l’immagine del paese? C’è più voglia di Italia nei portafogli?
«Sicuramente sì. Tre anni fa il rischio-Italia era inconcepibile, mentre ora abbiamo il problema inverso, ossia capire quali siano le opportunità di investimento da trovare in Italia. Purtroppo non sono molte, perché sono poche le società di grandezza adeguata alle dimensioni di un investitore istituzionale americano. Tra esse, sicuramente si possono citare Banca Intesa e Poste Italiane».
Ferrari è appena arrivata a Wall Street. A chi fa gola il titolo?
«Il titolo è un cosiddetto luxury good investment, quindi lo si compra così come accade con Hermes. È un bene di lusso che si basa sulla “gestione della scarsità”. Far sì, dunque, di mantenere l’esclusività che dà il lusso e al tempo stesso prevedere le prospettive di crescita».
Restando all’Italia. Ci torna spesso e se sì, dove?
«In Italia torno spesso e volentieri. Mi fa molto piacere poter aiutare l’ottimo team che abbiamo a Milano per continuare la presenza di Citigroup in Italia. Principalmente mi muovo tra Milano, Roma e Torino. In vacanza, invece, vado dove ci sono gli amici».
Come è cambiata New York negli ultimi 40 anni?
«La città è sempre bella perché è viva, internazionale e globale. È il centro del mondo. Nel tempo si è però via via internazionalizzata. Solamente nella mia banca il numero di global Citizen presenti in un meeting è ampissimo. Abbiamo capi messicani, spagnoli, inglesi».
Lei ha un ufficio Downtown e un altro Uptown. Quali sono i luoghi che ama di più?
«Visto dove sono i miei uffici dovrei dire la metropolitana... Ma New York è tutta bella, da Tribeca a Soho, da East Village a West Village, fino a Chelsea e anche Harlem.
Ai giovani italiani che escono dalle scuole superiori consiglia di venire negli Stati Uniti a proseguire gli studi?
«Prima di tutto sarebbe necessario far sì che le università italiane diventino competitive a livello mondiale. Esistono alcune eccellenze come l’Università Luigi Bocconi e il Politecnico di Milano o la Scuola Normale di Pisa. Il problema è che l’istruzione superiore in Italia è un po’ troppo frammentata e lo è in modo sbagliato. Ci sono punte d’eccellenza e su queste bisogna lavorare. Poi è importante far sì che ci sia anche una formazione professionale alla base. È essenziale però soprattutto che i ragazzi capiscano di essere cittadini di un mondo globale. Non deve più esistere il concetto di fuga di cervelli dal paese, ma piuttosto un bilanciamento tra chi riesce ad andare all’estero e, dall’altra parte, l’Italia che deve saper attrarre capacità, talenti e portarli al suo interno».