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 2015  novembre 05 Giovedì calendario

Crocetta, Emiliano, De Luca, Pisapia, ecc: tutti i guai del Pd, un partito sottosopra

Ma a Matteo Renzi conviene davvero occupare Palazzo Chigi fino al 2018? A leggere il trend dei sondaggi nazionali, sembrerebbe proprio di no, perché di questo passo già nel maggio 2016 i Cinquestelle saranno il primo partito italiano, con il centrodestra (se unito) a un’incollatura dal Partito democratico e a due dai grillini. Gli effetti collaterali di un tripolarizzazione così spinta, devastanti per il presidente del Consiglio, sono due. Il primo è la potenziale debacle del Pd alle elezioni amministrative; tanto per citare un paio di dati esemplari: le rilevazioni su Roma danno i pentastellati al 33-35 per cento e i democratici al 17-19, scavalcati anche dal centrodestra (26-27 per cento senza Alfio Marchini; 37 con Marchini candidato); quelle su Napoli, grazie a un voto molto frazionato, prevedono un ballottaggio tra Cinquestelle (30-31 per cento) e centrodestra (24-26). Considerati questi risultati, Renzi pagherebbe l’altro effetto collaterale: la caduta del governo nazionale. Tanto varrebbe approvare la legge di Stabilità e poi chiedere il ricorso anticipato alle urne già nel 2016, per giocarsela almeno alla pari con i «competitor». Cioè prima di finire sottosopra.
E però Renzi è Renzi. L’uomo ha grande fiducia in se stesso, è convinto di ribaltare la tendenza negativa grazie al suo movimentismo governativo. Insomma, il suo pensiero, sintetizzato, è: «Chi se ne frega delle bombe esplose con Ignazio Marino; chi se ne sbatte delle decine di ordigni simil-mariniani disseminati in Italia; chi se ne frega del Partito democratico: io ho la bomba atomica di Palazzo Chigi, la più potente di tutte». Auguri. Tuttavia, finora nessuno è riuscito a imporsi elettoralmente se privo di un partito pronto a sostenerlo. Senza scomodare Matteo Salvini, che un minimo di organizzazione l’ha costruita, persino Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, che pure non amano la forma tradizionale di partito, vengono riconosciuti come leader assoluti da militanti, quadri e dirigenti. E i due, seppur a modo loro, ricambiano. Il premier-segretario in carica no, ha lasciato il Pd in mano ai Renzi locali come Sergio Chiamparino (Piemonte), ora capofila della protesta delle Regioni sui tagli alla Sanità (e non solo).
Peggio ancora va su quei territori in cui il Pd è balia di «capataz», avventurieri e cacicchi, soprattutto a Roma (dove il Pd viene identificato come «il peggiore d’Italia») e nel Mezzogiorno, posti nei quali gli avventurieri sono organizzati in bande politiche l’un contro l’altra armate e spesso ribelli contro lo stesso Renzi. Che in alcuni casi viene costretto all’intervento diretto dai collaboratori più stretti; in altri non sa ancora quali pesci prendere. Sempre che voglia prenderli. A lui il Pd sottosopra forse piace.
 
Puglia. Qui la rottamazione si è fermata a Termoli, in Molise. Insomma, non è mai iniziata. Michele Emiliano è stato più veloce di Renzi. Intuito che la ditta Bersani-D’Alema-Cuperlo stava fallendo, si è fatto renziano in largo anticipo sull’auspicata (dal premier) mandata ai giardinetti. Poi nessun agguato è riuscito a minarlo, a cominciare dalla candidatura alle europee fatta saltare da Renzi all’ultimo istante. Emiliano ha stravinto primarie e regionali, creando un suo partito dentro il Pd. In Puglia ora impera di fatto con il suo monocolore personale, peraltro arricchito dalla recente desistenza con Raffaele Fitto, ovviamente in chiave anti-renziana. Dall’Ilva alla Buona scuola, è un fiorire di attacchi del governatore al suo (presunto) leader, fino al «no» alle trivelle petrolifere, per le quali Emiliano è a capo della rivolta dei governatori meridionali. Alla fine, in Puglia, a Renzi restano soltanto due uomini. Il primo è il presidente onorario dell’Istituto Gramsci. Ovvero quel Beppe Vacca (ex?) padre nobile della sinistra dura e pura, scopertosi sponsor del renzismo. Per dirne una, su l’Unità il filosofo ha sostenuto: «Trovo uno straordinario errore di grammatica il tentativo di eliminare dal tavolo del discorso la formula del Partito della nazione». Il secondo renziano di Puglia è il sindaco di Bari, Antonio Decaro, «sottratto» in corso d’opera a Emiliano. E infatti in consiglio comunale è già cominciata una guerra sottile tra decariani ed emilianisti, con i secondi a ricordare ai primi che «alla fine sarà Michele a rottamare Matteo…».

Sicilia.
Aveva promesso di battezzare la sua quarta giunta in tempi brevi ma poi ha rimandato continuamente, preferendo persino viaggiare verso Tunisi per imprecisati motivi istituzionali. Ma fa nulla, il record mondiale, unico, vero, assoluto di Rosario Crocetta, battuto martedì 3 novembre (peraltro superando se stesso) è un altro: 42 assessori alternati in tre anni. Mai vista una cosa simile sul pianeta Terra. Ma si sa, il governatore è umorale, cambia idee spesso, sugli uomini come sugli atti, le marce indietro non si contano. L’ultima, però, l’ha dovuta subire: la quarta giunta l’ha di fatto decisa Renzi attraverso il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, d’accordo con il segretario regionale Fausto Raciti. Un piano che doveva convincere anche gli altri «capataz» locali, a partire dai due Giuseppe (Lumia e Lupo), passando per Antonello Cracolici, fino, appunto, a Crocetta. Ma la situazione si è impantanata dopo il rifiuto di Lupo. Fallita la proposta di nominare assessori alcuni deputati (nelle correnti si è aperta una faida: ogni singolo parlamentare poneva il suo veto sugli altri), lunedì 2 novembre, giorno dei morti, il governatore ha detto esattamente come stavano le cose: «Assurdo che un rimpasto salti per il no di Lupo», che aveva intuito la trappola di Faraone, «ma è assurdo anche che l’unico modo per mettere d’accordo le correnti era aumentare da 5 a 7 gli assessori». Su questo spettacolo alla Checco Zalone c’è da aggiungere solo un dettaglio: fosse stato per Renzi, la faccenda si sarebbe già risolta come con Marino, mandando Crocetta a casa. Ma Faraone ha sommessamente spiegato al premier che mai e poi mai i ricchi deputati regionali si sarebbero dimessi. Un modo elegante per dire che, in fondo, il peggiore Pd non è (solo) quello romano.

Campania.
In attesa di capire che cosa accadrà a Vincenzo De Luca (vedi alla voce «legge Severino»); rivelato che il governatore intende candidare i figli (in primavera Roberto al Comune di Salerno, più avanti Piero alle Politiche); stabilito che rispetto ai progetti rottamatori di Renzi ha sempre vinto lui, «Vicienzo»; ecco, nell’altra, c’è da raccontare la lunga vigilia delle primarie per il candidato sindaco a Napoli. Da un lato c’è Antonio Bassolino, minoritario nel Pd ma sempre popolare in città, dall’altro tutto il resto del Partito democratico, maggioritario e rissoso, nel senso che a ogni leaderino corrisponde una sottocorrente. Prendiamo i renziani più noti. Sono il capogruppo in Regione Mario Casillo, lo staffista di Palazzo Chigi Francesco Nicodemo, i deputati Leonardo Impegno e Assunta Tartaglione: i quattro non vanno molto d’accordo, si guardano con diffidenza convergente e parallela. Poi c’è l’Area riformista di Gianluca Daniele, che a Roma fa capo a Roberto Speranza mentre l’AreaDem di Dario Franceschini a Napoli ha Teresa Armato e Antonio Amato. Poi ci sono i Giovani turchi partenopei, rappresentati da Antonio Marciano, Valeria Valente, Andrea Cozzolino. Pure Lorenzo Guerini ha la sua corrente, la rappresenta il consigliere regionale Raffaele Topo. E ancora dalemiani, veltroniani, lettiani, delriani; in città resistono persino i seguaci di Giorgio Napolitano, guidati da Umberto Ranieri. Insomma, c’è «di tutto e di più». Questo «tutto» e questo «più» dovrebbe produrre un’impresa impossibile: mettersi assieme per battere Bassolino, il cui successo sarebbe il trionfo dell’anti-rottamazione. D’altronde lo stesso De Luca ha annunciato che quella fase lì è finita da un pezzo. Ecco, chissà il dolore che avrà provato Renzi…

Calabria.
Per chi non lo sapesse (perché non lo vede e non sente), qui il governatore si chiama Mario Oliverio. In politica fin da bambino, è il più classico esponente del Pci-Pds-Ds-Pd (se li è fatti tutti). Composta la giunta, il dalemiano Oliverio si è trovato subito travolto dallo scandalo-rimborsi. La conseguenza? Le dimissioni degli assessori democratici (ora rancorosi con lui) Antonino De Gaetano, Vincenzo Ciconte e Carlo Guccione. Il governatore ha nominato una giunta di tecnici. Viva la società civile, quindi? No, ognuno è espressione di un vecchio «capataz» locale, da Agazio Loiero a Nicola Adamo, passando per Sandro Principe. Insomma, questi assessori sono poco più che delle teste di legno, peraltro anti-renziane o diversamente renziane. E i renziani? Esprimono il segretario regionale, Ernesto Magorno, che conta poco più di zero dopo il ridimensionamento impostogli dal deputato Ernesto Carbone. Ascoltatissimo dal premier, eletto al Nord, è di origine calabrese e ha qualche chance di diventare ministro nel rimpasto prossimo futuro. Sul territorio Renzi punta su Nicola Irto, presidente del consiglio regionale. Ma sarà dura ribaltare equilibri decisamente sfavorevoli: in Regione la maggioranza è nettamente dalemian-bersaniana.

Resto d’Italia. Persino nel Molise le faide stanno dilaniando il partito. Dopo le divisioni, clamorose, nella corrente renziana, l’11 settembre il sindaco di Isernia, Luigi Brasiello, è stato dimissionato sul modello di Marino anche grazie agli ex parlamentari Roberto Ruta e Danilo Leva. Quanto alla Sardegna, la giunta del governatore democratico Francesco Pigliaru sta rischiando sulla riforma degli Enti locali accusata di essere «Cagliaricentrica». Il segretario regionale, Renato Soru, ha blindato il testo della Giunta regionale ma tutti i sindaci Pd del Sassarese e del Sulcis sono in rivolta e chiedono l’intervento di Renzi. Il quale, per inciso, non ci pensa nemmeno a mettere bocca.
Per le comunali di Milano, l’unica speranza è ottenere il «sì» alla candidatura del commissario all’Expo, Giuseppe Sala: il Pd non ha candidati forti. In Basilicata il premier può contare sui Pittella’s (Gianni e Marcello) e non è poco, ma Roberto Speranza è in crescita. In Toscana il governatore Enrico Rossi vuole sfidare Renzi per la segreteria. In Veneto il Pd non litiga semplicemente perché non c’è più, distrutto da Luca Zaia. In Liguria, infine, il partito è sbandato. Dopo la vittoria di Giovanni Toti alle regionali, i generali restano e le truppe scappano. Dalle parti di Genova, insomma, il partito sottosopra è già cristallizzato.