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 2015  novembre 05 Giovedì calendario

Sicuri che Furchì sia l’assassino di Musy? Panorama mette in fila tutti i punti oscuri del processo di primo grado

I giudici che nove mesi fa hanno condannato all’ergastolo Francesco Furchì per l’assassinio di Alberto Musy, in una sentenza di ben 70 pagine, non hanno risposto ad alcune domande imprescindibili: come può Furchì aver premeditato un omicidio se non conosceva le abitudini della vittima e se non poteva sapere che la mattina dell’agguato Musy avrebbe portato lui i figli a scuola? I giudici sono anche certi della presenza di un complice, ma non sanno indicarne il nome: possibile?
Ma ci sono altre incongruenze. Prima di cadere in coma, la vittima ha raccontato di aver parlato con l’aggressore. Ora, Musy conosceva bene Furchì: com’è possibile che, sentendone la voce, non l’abbia riconosciuto? Infine, la questione del mezzo di trasporto: i giudici dicono che Furchì uscendo dal suo ufficio abbia utilizzato un motorino. Dov’è finito? Il tragitto è pieno di telecamere: perché non esiste prova del suo passaggio? Infine, anche sul movente ci sono dubbi... È su questi numerosi punti non chiariti dai giudici che la difesa si prepara a smontare l’accusa nel processo d’appello. Ma prima facciamo un passo indietro.
Alberto Musy, avvocato, docente universitario, consigliere comunale dell’Udc, ex candidato sindaco a Torino, viene colpito con quattro colpi di pistola sotto casa in via Barbaroux alle 8,05 del 21 marzo 2012. Dopo pochi minuti entra in coma, ma prima di perdere i sensi parla con i condomini che lo soccorrono. È lucido. Dice, tra l’altro: «In che razza di mondo viviamo, che arriva uno e ti spara senza motivo?». Musy racconta di aver sorpreso un uomo vicino al cancelletto della cantina, e di avergli chiesto che cosa stesse facendo: lui si è girato, ha estratto la pistola e gli ha sparato. Un uomo robusto, sui 40 anni, con un impermeabile nero e un casco bianco, come risulterà dalle telecamere, con la bocca coperta da un nastro e un pacco in mano. Poco dopo, alla moglie Angelica, aggiunge: «Mi hanno seguito, c’era un motorino».
La vittima muore 20 mesi dopo, il 22 ottobre 2013. Nel frattempo, il 29 gennaio di quell’anno, è stato arrestato Furchì, un suo vecchio collaboratore politico. La Procura non ha dubbi: è lui ad avere sparato. Gli indizi sono molti. C’è compatibilità cronologica: la mattina dell’agguato Furchì era in centro, nella sede dell’Associazione Magna Grecia di cui era presidente. Lo testimoniano una vicina telecamera di sicurezza e tre operai che l’uomo incontra. Da lì, scrivono i giudici, a un certo punto Furchì è uscito «alla chetichella», senza salutare nessuno.
Furchì viene interrogato la prima volta il 29 gennaio 2013. Gli viene chiesto conto dei suoi spostamenti nella mattinata del 21 marzo 2012, dieci mesi prima. Racconta di essere arrivato a Torino con l’auto della moglie. Ma non sa dire che cosa abbia fatto dalle 7,26 alle 10,04 di quel maledetto giorno: l’imputato non offre elementi a sua discolpa, scrivono i giudici. Contro Furchì gioca soprattutto la «compatibilità dei parametri fisici» con quelli dell’uomo con l’impermeabile e il casco. I consulenti del pm elencano: c’è comunanza nel valgismo dei piedi, comunanza nella zoppìa con difetto di appoggio del piede destro, comunanza nell’asimmetria delle spalle, la destra è più bassa. Coincidono anche il «naso, di dimensioni notevoli» e le «mani piccole». In tutto questo, anche il rifiuto dell’imputato di sottoporsi a misurazioni fisiche pesa negativamente.
Come non bastasse, la mattina della sparatoria Furchì avrebbe spento il telefono: per i periti sarebbe rimasto scollegato tra le 7,24 e le 10,04, quando riceve una telefonata dalla moglie. Ci sono poi le dichia¬razioni di un suo compagno di cella, Pietro Altana, che riferisce una confidenza di Furchì: un amico gli aveva custodito una pistola in un capanno. Lo stesso Furchì, dopo un diverbio, gli avrebbe urlato: «Ti faccio fare la fine di Musy». Anche il comportamento dell’imputato dopo il delitto diventa indizio di colpevolezza: i giudici sottolineano che, nonostante Furchì fosse solito sfruttare ogni occasione per salire agli onori della cronaca, non ha adottato alcuna iniziativa pubblica per «cavalcare la notizia». Neppure un «misero comunicato di solidarietà all’amico».
Infine, il movente: perché ha ucciso? Dicono i pm: Furchì è un «millantatore», un «maneggione», un uomo dal «carattere violento e prevaricatore», in grado di covare «odio e propositi di vendetta». Musy avrebbe avuto la colpa di tradirlo in più occasioni: nella tentata scalata a una società in fallimento, la Arenaways; nel concorso universitario dove Furchì gli aveva caldeggiato invano il figlio dell’onorevole Salvo Andò; in una lite durante la campagna elettorale del 2011, quando Musy gli aveva negato il ruolo di capolista.
Il 28 gennaio 2015 la Corte d’assise di Torino ha condannato Furchì all’ergastolo. L’appello inizierà l’11 novembre. I suoi avvocati, Giancarlo Pittelli e Gaetano Pecorella, annunciano battaglia: parlano di un «grave condizionamento» del giudice di primo grado, di «pregiudizio» contro il loro assistito, di «travisamento del fatto e della prova».
I giudici, in effetti, dovranno sciogliere molti dubbi. A cominciare da una scelta del¬la vittima la mattina dell’aggressione. In casa Musy moglie e marito decidevano giorno per giorno, in base agli impegni reciproci, chi dovesse portare i bimbi a scuola: come faceva Furchì a conoscere le abitudini di Musy? Non c’è testimonianza o telecamera in grado di collocarlo nei pressi della casa della vittima nei giorni precedenti il delitto: come faceva a sapere degli spostamenti di quella mattina? Secondo i giudici, avrebbe avuto un complice. La conferma verrebbe da alcuni fotogrammi che riprendono l’attentatore mentre infila la mano sotto la mascherina che gli copre la bocca: è la prova che riceve avvisato via radio dell’imminente arrivo della vittima. Ma il consulente del pm colloca quelle immagini in un momento successivo all’attentato, e soprattutto l’accusa non ha mai identificato il presunto complice.
C’è poi il problema dei tempi e degli spostamenti dell’imputato. Furchì esce dal suo ufficio e le telecamere lo inquadrano mentre cammina in direzione opposta rispetto a casa Musy. Per rendere compatibili tempi e spazi, il pm sostiene si sia mosso in motorino. Ma non è mai stato ritrovato. Anche qui: è possibile? E se davvero il motorino esiste, perché Furchì non è rimasto in sella? Che senso aveva lasciarlo per proseguire a piedi, e così attirare attenzione per via del casco?
Anche sull’alibi si concentra qualche dubbio. Si dice falsa la testimonianza di Furchì, che peraltro riguarda fatti avvenuti dieci mesi prima. E non si vede da dove possa ricavarsi la certezza che Furchì quella mattina abbia spento il suo telefono volontariamente per il solo fatto che questo è rimasto scollegato dalla rete. Posto che nella stessa giornata, dalle 10,16 alle 12,22, dalle 12,56 alle 16,33, dalle 17,26 alle 21, la sua utenza ha registrato lo stesso distacco dalla rete. Secondo l’imputato, a causa di un cattivo funzionamento dell’apparecchio.
Non si crede a lui, ma si crede al suo compagno di cella Altana, pregiudicato per truffa, ricettazione e calunnia, le cui parole vengono ritenute vere dalla corte nonostante i giudici lo definiscano «un millantatore che vanta rapporti di collaborazione con i servizi segreti forse mai avvenuti».
La farina di cui è stata impastata la condanna di primo grado diventa pane a pag. 13 della sentenza: «Emerge chiara e netta la grave portata indiziaria della personalità violenta e vendicativa di Furchì: è l’unico soggetto, tra quelli che sono stati individuati nelle indagini come protagonisti di divergenze con la vittima, con caratteristiche marcatamente dirette alla brutale aggressività». Ma l’aggressività si ricava solo da una denuncia dell’ex moglie, che ha portato a un processo in cui Furchì è stato assolto il 30 gennaio 2015 «perché il fatto non sussiste». Giudizio o pregiudizio? Ai giudici d’Appello l’ardua sentenza.