Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 05 Giovedì calendario

Così Pablo Escobar è diventato il criminale più ricco di tutti i tempi

Mentre cala la sera sul Rio Magdalena, in Colombia, gli ippopotami grugniscono. Un fracasso che sconvolge queste acque tranquille dal giorno in cui Pablo Escobar ne importò due nel suo narco-rifugio, la Hacienda Nápoles. Venivano dall’International Wildlife Park di Dallas, in Texas, da quegli Stati Uniti la cui fame di droga catapultò il “Re della coca” in cima alla lista dei miliardari di Forbes.
I “cattivi” sono d’ogni tipo, ma fa specie quando l’aspetto di un genio del male non è all’altezza della reputazione. Il doppio mento di Pablo Escobar quasi avesse inghiottito dei cuscini era leggendario; i baffi sono passati dal modello Burt Reynolds a quello di Stalin. I capelli erano lunghi, con la riga di lato. Escobar non raggiungeva il metro e 70, era più basso della moglie-bambina. Insomma, l’uomo più ricercato del pianeta era uno sfigato.
Sono passati 22 anni dalla sua morte – su un tetto di Medellin, sotto il fuoco d’una squadra americano-colombiana di soldati, investigatori, mercenari e rivali – eppure non è mai stato così popolare. Da vivo era un assassino e un filantropo, un sequestratore e un paladino dei poveri, un antieroe populista che ha corrotto le istituzioni e macellato migliaia di oppositori. Da morto, ha dato origine a un’industria dell’entertainment inarrestabile.
Mi sono iscritto a uno dei “Pablo Tours” e alle 8.30 del mattino sono salito sul pulmino Nissan in realtà uno school bus – davanti al supermarket Exito a Medellín. Per 25 pesos, insieme a diversi turisti argentini, canadesi e tedeschi, ho seguito un corso sulle gesta di Escobar: assassinio di giudici, giornalisti, candidati presidenti, ha fatto saltare in aria l’equivalente locale della sede centrale dell’Fbi; ha sterminato mezza Corte Suprema; ha fatto abbattere un jet; ha dato soldi agli abitanti delle baraccopoli trasformandoli in sicari, affinché uccidessero oltre 500 agenti. «Lui era così», spiega Doris, la guida.
Arriviamo a Jardines Montesacro, il cimitero dove migliaia di persone disperate accorsero al funerale di quest’uomo dalla ricchezza demenziale (si dice spendesse 2.500 dollari al mese solo in elastici per tenere insieme le mazzette di banconote). Poiché molti erano certi che in realtà non fosse affatto morto, per smentire la leggenda la famiglia qualche anno dopo fece esumare il cadavere: su YouTube si può vedere la scena e addirittura il suo cranio, ancora con un’ombra di baffi.
«Tutti piangevano, e speravano fosse ancora vivo», ammette Doris mentre cerca di vendere dvd, adesivi e souvenir.
La dimora di Roberto Escobar, suo fratello e portaborse, è una villa a due piani sulle colline della città, circondata da muri altissimi sovrastati da cocci di vetro. Lui ha 68 anni, è tozzo e zoppica in seguito all’esplosione di una lettera-bomba recapitatagli in carcere. Firma i nostri acquisti e li “autentica” con la sua impronta digitale. «Grazie della visita», sorride, «mi casa es su casa».
Dopo la morte di Pablo, l’Hacienda Nápoles andò in rovina. Solo gli ippopotami sono sopravvissuti. Troppo pericolosi, troppo aggressivi per non prosperare in quello che, oggi, è un parco a tema gestito dal governo con un bacino idrico di 17 acri creato da Pablo. C’è il filo spinato, ma gli animali fanno quel che vogliono. «Nessuno è mai riuscito a catturarli», ammette Oberdan Martínez, il direttore. Fuorché Pepe, finito nel 2009 con due cartucce.375 Holland & Holland. Un colpo alla testa, un altro al cuore: un classico della caccia grossa. Paradossalmente, però, l’esecuzione dell’ippopotamo che devastava i campi coltivati e attaccava il bestiame fu quasi un autogol. Una foto della carcassa dell’animale, circondata da soldati sorridenti, diventò un’immagine catastrofica per le pubbliche relazioni di un Paese che sembrava invece deciso a rinnegare il proprio passato sanguinoso.
L’industria Escobar imbarazza i colombiani. Da generazioni tentano di superare il trauma di Pablo. Con quel suo slogan – «Plata o plomo», cioè argento o piombo, o ti corrompo o t’ammazzo – fece di Medellin la capitale mondiale degli omicidi (6.349 nel 1971) e spinto il Paese sull’orlo della narcocrazia. Oggi tutti parlano dei cambiamenti, della nuova, ricca classe media, della caduta vertiginosa dei crimini, dei turisti affascinati dallo slogan: «L’unico rischio? Volerci restare». Ma lo stesso opportunismo su cui l’impero di Escobar si reggeva impedisce tuttora ai colombiani di evitare lo sfruttamento della sua storia, per quanto falso e volgare, macabro o reinventato.
Il figlio Juan Pablo ha scritto un libro, e così pure le sorelle Alba Marina e Luz Maria; due ne ha pubblicati il fratello Roberto e ha fatto centro, perché i diritti del primo li ha voluti Oliver Stone per uno dei molti progetti di Hollywood su Escobar: sia Javier Bardem sia John Leguizamo sono stati scelti per interpretarlo in due diversi film-biografia, mentre nel 2014 Benicio del Toro ha vestito i suoi panni in Escobar: Paradise Lost. E ancora: ad agosto Netflix ha lanciato la serie Narcos, la storia dei due agenti della Dea protagonisti del best seller di Mark Bowden Killing Pablo. Sempre su Netflix c’è Escobar: el Patrón del Mal, telenovela di 74 episodi interpretata da Andrés Parra che narra la scia dei suoi crimini: in Colombia, la prima puntata ha avuto l’audience più alta di ogni altro debutto tv.
Nessun altro fuorilegge al mondo ha esercitato su un Paese un potere comparabile. Tanto per dire: il governo colombiano, vista la fragilità dei meccanismi giudiziari, dopo averlo catturato intendeva consegnarlo agli Usa. Pablo si offrì di pagare l’intero debito pubblico nazionale, che ammontava a circa 10 mila milioni di dollari, in cambio di una Costituzione che escludesse l’estradizione. Raggiunto l’accordo si costituì, non prima d’essersi costruito una prigione a 5 stelle: La Catedral, sulle colline di Medellin. Ci rimase un anno, fra la discoteca, il bar e prosperose bellezze, prima che il governo lo destinasse a un vero carcere: mentre i soldati entravano dall’ingresso principale per prelevarlo, lui evase dal retro.
Il giorno in cui una pallottola lo colpì alla tempia, Escobar era stato a lungo al telefono con il figlio Juan Pablo pur sapendo che le linee erano sorvegliate. Il ragazzo, insieme alla madre Maria Victoria Henao e alla sorella minore, erano rifugiati in un hotel blindato. Invano implorò il padre di non chiamare.
«Chiunque l’abbia ucciso, l’ammazzerò con le mie mani, quel bastardo!», urlò Juan Pablo alla radio quando seppe la notizia. All’epoca aveva 16 anni.
Per sopravvivere, Juan Pablo è stato costretto a emigrare. Nessun Paese lo voleva. «Mi sono sentito un alieno», racconta dalla patria adottiva, l’Argentina. Ma neanche li è riuscito a togliersi dall’ombra del padre, «dall’aspettativa che mi convertissi in un Pablo Escobar 2.0».
Mentre cresceva e diventava architetto, marito, padre, continuava a chiedersi come venire a patti con quel sanguinoso retaggio, le cui ferite ancora causano una sorta di disturbo post-traumatico da stress in Colombia: cosa ricordare, cosa dimenticare, di cosa avere una visione romanzata e cosa stigmatizzare, cosa rivalutare e cosa commercializzare.
Dopo 10 anni di esilio, Juan Pablo ha scritto una lettera ai figli delle vittime del padre, chiedendo perdono e un incontro: da questi faccia a faccia è nato il film-documentario Sins of My Father, presentato al Sundance Festival nel 2009. Invitato alla prima, ha chiesto il visto per gli Stati Uniti, rilasciato dall’ambasciata a Buenos Aires e revocato tre giorni dopo a causa di un curioso “errore di procedura”.
Oggi Juan Pablo si è dato alla moda e con il marchio Escobar Henao produce t-shirt (95 dollari). Mostrano immagini del padre prima che diventasse narcotrafficante e appelli all’auto-riflessione scritti a mano, tipo: «Noi colombiani amiamo nascondere i nostri errori: invece dobbiamo affrontarli». Le magliette non sono vendute in Colombia, dopo che le famiglie delle vittime hanno protestato («Sarebbe come commercializzare l’immagine di Hitler»). In compenso, sulle colline di Medellin ancora troneggia il barrio Pablo Escobar. Quando trent’anni fa una discarica abusiva è andata a fuoco, illuminando la miseria dei paria della società, Pablo fece costruire un villaggio da 400 alloggi per i rifugiati che lo battezzarono col suo nome. Nonostante le pressioni di Bogotà si chiama ancora così.
Il presidente del consiglio di zona, Wberny Zabala, spiega: «La fedeltà non è in vendita». Avesse avuto i fondi, gli avrebbe fatto costruire anche una statua, ma l’arte vi è comunque entrata. Lo studente Esteban Zapata ha ottenuto anni fa l’incarico di realizzare una serie di statuette raffiguranti appunto il Re della coca: come rapper, come uomo politico e così via. Tutte le versioni – lo stesso paio di baffi, lo stesso viso pallido, inespressivo eppure inconfondibilmente suo – sono state distribuite nel villaggio. Una settimana dopo, Zapata ha scoperto che erano assurte al ruolo di icona nei luoghi appositi: altari, teche, santuari.
Quando calano le tenebre, torno all’ex Hacienda Nápoles. I responsabili del parco hanno creato delle aperture per consentire agli ippopotami di allontanarsi e pascolare durante la notte. La popolazione di pachidermi è raddoppiata ogni quinquennio, la vita di ciascun esemplare dura in media una cinquantina d’anni...
«Matematica elementare», domanda Carlos Valderrama, il veterinario del parco: «come faremo quando nel Rio Magdalena ce ne saranno diecimila? Ecco, guardi quell’ombra», esclama puntando i fari verso una grande, goffa figura lucida come una perla nel buio della notte, bulbosa, con le gambe troppo corte.
Nel rifugio di Pablo Escobar, fisso negli occhi il mammifero più pericoloso della Terra. Ci avviciniamo un poco: ma quando i nostri occhi si sono adattati alla poca luce, l’ippopotamo è già svanito nel nulla.