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 2015  novembre 05 Giovedì calendario

«Io come Agassi, con un papà-martello». Lorenzo De Silvestri si confessa

Quando vedi che, parlando, afferra il telefonino non per sbirciare Instagram ma per leggerti alcune delle frasi che lo hanno colpito, capisci che Lorenzo De Silvestri non è un calciatore qualsiasi. I libri fanno parte della sua vita, «Open» di Andre Agassi più degli altri. E i motivi ce li rivela subito: «Perché è l’autobiografia di un grande sportivo – e io faccio sport – e poi per il rapporto complicato che ha avuto col padre, in cui per certi aspetti mi sono rivisto». Stop. Dimentichiamo presente e passato prossimo, cioè il fatto che nel 2007 «World Soccer» avesse inserito Lorenzo fra i 40 giovani più promettenti del mondo, gli alti e bassi, la Sampdoria, la Nazionale, l’infortunio di giugno con la Croazia e il rientro ormai alle porte. Nella vita sono le radici che contano e se Agassi scrive ossessivamente «odio il tennis», succede perché suo padre Mike fin da bambino lo ha vessato con la sua volontà di farne un campione. E senza pentimenti.
Pensi se lei fosse diventato tennista.
«Impossibile, per mio padre Roberto c’era poco sacrificio. È stato lui a trasmettermi la passione per lo sport, però non esisteva la tecnica o il divertimento: solo il sacrificio. Io ho fatto ginnastica artistica, nuoto, atletica e soprattutto sci di fondo, ma sia a me sia a mia sorella Martina il fondo ce l’ha imposto. Non potevamo neppure fare un po’ di discesa come gli altri ragazzi. Senza sacrificio tutto era una perdita di tempo, si figuri il calcio. Abbiamo litigato tanto, poi mia madre Angela e mio nonno Dino hanno mediato: potevo farlo tre giorni a settimana, ma contemporaneamente dovevo fare atletica. Alla fine però devo ringraziarlo, perché ad un certo punto fisicamente andavo il doppio degli altri. Papà non mi abbracciava, non diceva “ti voglio bene”, il suo modo di dimostrarmi l’affetto era starmi sempre vicino. È stato un martello. Gli abruzzesi non mollano mai».
Ma lei adesso odia il calcio?
«Io ho adorato il calcio, ma mi è capitato di odiarlo quando non giocavo o quando davo meno di ciò che potevo. Oltre alle esperienze, mi è stato d’aiuto avere da 3-4 anni un mental coach, Roberto Civitarese. E ora ammetto che il calcio un po’ lo odio, ma non potrei farne a meno. E ogni volta non vedo l’ora di scendere in campo».
Morale: con suo figlio lei sarà...?
«...un martello. Vorrei fare copia e incolla di ciò che ha fatto mio padre, perché quando da ragazzo fai stronzate, se fai sport sai che non puoi andare oltre un certo limite».
Agassi è disorientato anche dalla solitudine.
«Credo che la parola chiave sia equilibrio. Innanzitutto interiore. A me capita di parlare solo, anche allo specchio, capita di dover sopportare la noia. A volte piangevo, soprattutto a Firenze quando stavo fuori. In quel periodo ho avuto anche Mihajlovic e adesso so che non ero pronto come calciatore e come uomo. Cercavo di costruirmi alibi, invece dovevo crescere e ora ringrazio Sinisa per non avermi fatto giocare».
In «Open» anche il successo mette in crisi.
«All’inizio anche a me la popolarità mi ha destabilizzato. Ero giovane e tanti si perdono proprio per questo. Certo, siamo dei privilegiati, una casta. Anche a me, come ad Agassi, è capitato di saltare un fila al ristorante, ma cerco di non essere mai maleducato. Noi viviamo in un mondo ovattato, ma poi purtroppo tutto finisce e chi non ti vuole bene davvero si dimentica di te. Capisco perciò come si rischi la depressione, Anche io nei momenti bui provavo malessere profondo, non avevo voglia di uscire di casa, ma si superano anche grazie all’adrenalina della gara».
Capita anche a lei, come ad Agassi, di sentirsi arrapato prima di un match?
«Sì, capita. A volte mi sento Hulk, ma quando sei in ritiro è dura... Di sicuro, quando smetterò, mi mancherà l’agitazione prima della partita».
Le è capitato che un suo idolo l’abbia delusa?
«Io ho avuto idoli tranquilli, per il mio ruolo primo fra tutti Zambrotta. Chi mi ha deluso è Armstrong».
Da Zambrotta ha ripreso un look sobrio
«Io sì. A volte mi capita di vedere dei compagni stravaganti e penso “guarda quello...”, ma con gli anni ho imparato a non giudicare».
Almeno lei, se avesse l’orecchino, non avrebbe un papà che temerebbe per i suoi gusti sessuali.
«Se me lo fossi messo da ragazzo, papà me l’avrebbe strappato e forse anche adesso ci proverebbe, così come farebbe storie per i tatuaggi se li avessi. Per fortuna non mi piacciono. Sull’omosessualità invece ammetto di essere tra quelli che dicono che il calcio non è pronto per i coming out, ma mi pare che tutta la società sia arretrata».
Agassi conta sugli amici e lei è salito alla ribalta anche per l’amicizia con Gabriele Sandri, il tifoso della Lazio ucciso da un agente: l’impressione è che lei è stato un po’ schiacciato da quella storia.
«Un po’ è vero, forse sono stato strumentalizzato e molti hanno strumentalizzato questa vicenda. Ma avevo solo 19 anni, andavo dappertutto e ripetevo le stesse cose. Con Gabriele non eravamo amici fraterni, ma ci frequentavamo spesso. Anche adesso, quando posso, mi piace ricordarlo insieme alla sua famiglia».
Quanto sono importanti i soldi per lei?
«Non gioco per la gloria, ma non ho mai pensato ai soldi durante una partita. La molla è sempre stata l’ambizione, il denaro arriva dopo. Poi da ragazzo mi è capitato di sperperarli. Ora invece compro qualche orologio e mi piace l’arte. Acquisto opere della cosiddetta “arte povera”: Bonalumi, Schifano, Pistoletto. È bello poi vedere l’artista come vive e lavora. Senza orari e obblighi, proprio l’opposto rispetto a noi».
Agassi racconta che lo sport vive anche di odii sportivi: a lei capita?
«Io ho duellato, ma mai odiato. Se devo scegliere un avversario particolarmente antipatico direi Ibrahimovic, ma non ho mai cercato un avversario per vendicarmi. Al massimo posso aver simulato qualche fallo, ma roba di poco».
Eppure ha giocato i derby di Roma e Genova.
«C’è tanta pressione, e poi io sono romano. Alla Lazio ricordo Di Canio che ci caricava durante la settimana. Ma anche qui a Marassi è tutto bellissimo».
Qui a Genova, quale avversario toglierebbe ai rivali e quale compagno vorrebbe sempre?
«Toglierei Perotti e vorrei sempre Eder, perché i derby si decidono con le giocate e lui sa farlo».
Nel libro si parla anche di doping e droga come uscita di emergenza dalla realtà. Lei che cosa racconta su questi due aspetti?
«Come farmaci riprenderei tutto ciò che ho preso, anche se molte volte non ti informi e ti fidi. Trasgressioni vere e proprie invece non ne ho mai fatte. Magari qualche bicchiere in più. La droga invece mai, se ti droghi di problemi te ne crei».
Agassi dice che l’incontro con Mandela lo ha ispirato. Lei quale personaggio vorrebbe conoscere?
«Anche se solo per una stretta di mano mi ha emozionato incontrare il Papa Francesco».
In «Open» si racconta di come spesso ai giornalisti non si racconta la verità: capita anche a lei?
«A volte sì. Non dire tutto è importante per salvaguardare il gruppo».
Ma voi calciatori non rischiate di passare per superficiali? Pensi alla ritrosia che c’è nel parlare di politica. Eppure siete uomini di spettacolo come cantanti e attori, che invece lo fanno.
«Guardi, sarebbe bello dire la propria su questi temi, ma abbiamo paura di essere strumentalizzati. A volte viene la voglia, però poi ci diciamo “tanto non porta a niente”. Per questo mi piacerebbe scrivere un libro come “Open” ma so che potrei farlo solo quando smetterò, perché prima non potrei dire tutto. Mi creerei dei nemici».
In stile Agassi, quali sono i suoi prossimi obiettivi come uomo e calciatore?
«Vorrei essere un esempio per i più giovani, mi piacerebbe essere impeccabile. E oltre a tornare in Nazionale, vorrei che la Samp facesse un punto più dello scorso anno».
Non ha detto un punto più del Genoa, quindi.
«No. In primavera avevamo un bel vantaggio e poi, proprio perché pensavamo a loro, ci siamo fatti superare. Il campanilismo è un limite. E bisogna sempre superare i propri limiti». Una frase così piacerebbe anche a papà Agassi.