il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2015
Giustizia italiana nel caos, questa volta per un virus informatico. Una banale infezione trasmessa per posta elettronica, già conosciuta e bloccata ovunque nel mondo, sta paralizzando da giorni gli uffici giudiziari di Roma. Tutta colpa dei programmi ideati per la magistratura italiana, costosi quanto lenti e vulnerabili
Tre giorni fa, un giudice di pace di Roma ha ricevuto una email con un allegato. Lo ha aperto. C’era un virus, relativamente nuovo ma già diffusosi in tutto il mondo e regolarmente bloccato. A Roma rischiava di infettare un software importante, Sicp, i Registri Generali Penali che gestiscono tutta l’attività del settore penale: senza Sicp Procura, Tribunale e Corte d’Appello non possono lavorare. Non solo. Sicp comunica con Tiap, il software che digitalizza i fascicoli del Pm: in Tiap c’è tutto, chi ci entra si legge qualsiasi cosa. Che fare? I tecnici hanno spento tutto e gli uffici si sono paralizzati. Dopo tre giorni di lavoro frenetico, oggi stanno provando a riaccendere.
Al momento, sui pc del distretto del Lazio, quello interessato dalla crisi, Word non funziona: per garantire la sicurezza hanno eliminato i file temporanei e Word ne ha bisogno. Sicché nessuno può scrivere. Un disastro totale. La domanda è: perché un virus che gira in tutto il mondo senza provocare particolari danni ha causato un pandemonio del genere nel distretto del Lazio e dunque nei palazzi di giustizia di Roma? Risposta facile: perché il sistema informatico della giustizia italiana è mal progettato e peggio assistito.
Sicp è stato progettato molti anni fa ed era pronto da 10. L’hanno introdotto quest’anno. Presentava enormi problemi di funzionalità (lentissimo) e soprattutto di sicurezza. Però alla fine dovevano pur giustificare i milioni di euro che avevano speso. È così lo hanno installato nel Data Center della Balduina; da là colloquia con i pc del distretto. I giudici e i cancellieri lo usano: sono costretti, senza non si può lavorare.
Ma bestemmiano ogni volta: per scaricare un dispositivo di sentenza ci va mezz’ora. Una cosa folle. Ma soprattutto è vulnerabile. E non c’è nessuno che sappia bene cosa fare. Fino a qualche anno fa, la Giustizia aveva accordi con le principali software house: Microsoft, Oracle. Quando c’erano problemi interveniva gente che sapeva dove mettere le mani, anche perché aveva affrontato lo stesso problema in altre parti del mondo: in poco tempo tutto si risolveva.
Adesso si è scelto il fai da te: è il risultato è quello che è successo. Ma c’è di più. La Giustizia, in un’epoca di web, app, smartphone, sta ancora a progettare pesantissimi software proprietari, che richiedono server micidiali e continua, costosissima e complicata manutenzione. Queste fuoriserie dell’informatica colloquiano con moderni pc messi a disposizione dei giudici. Moderni ma dotati di sistemi operativi vecchi come il cucco: girano ancora con Windows Xp. In realtà ogni PC, quando è stato comprato, aveva il suo bravo Windows 8. Ma Sicp, vecchio com’è, non gira sui sistemi operativi più recenti e quindi sono stati disinstallati e sostituiti da Xp.
Peccato che Microsoft non lo supporta più, è uscito di produzione da troppi anni. Così, quando succede qualcosa, non c’è nessuno che sappia bene cosa fare. D’altra parte, anche se lo si sapesse, più che far fronte all’emergenza non sarebbe possibile. È il sistema complessivo che è progettato male. Come un grattacielo costruito sulla sabbia. Lo si vede e sembra bellissimo; ma, giorno dopo giorno, affonda. Tanto più in quanto lo si alza sempre di più: un altro piano, un’altra piscina; come un altro software, un’altra funzionalità. Alla fine tutto crolla. Per una volta, è probabile che non sia colpa della politica ma del management. Un amministratore non deve essere necessariamente un ingegnere; ma deve consultarli e sforzarsi di capire quello che gli spiegano: l’incompetenza associata alla presunzione è deflagrante. L’innovazione tecnologica è la chiave di volta per l’efficienza della Giustizia; ma è uno strumento complicato: può esserne il sepolcro.