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 2015  novembre 05 Giovedì calendario

Risotto alla curcuma, insalata di quinoa, pomodoro San Marziano (sic): è il menu tutto italiano di un pranzo sulla stazione orbitante a 430 chilometri sulla Terra

MILANO. Primo piatto: risotto alla curcuma, termostabilizzato in autoclave a 121 gradi nei laboratori in Piemonte per il consumo in orbita. Secondo: insalata di quinoa con filetti di sgombro rigorosamente “made in Italy”, da scaldare per irradiazione nell’apposita valigetta a resistenze elettriche. Contorno: pomodoro “San Marziano”, l’ortaggio a prova di microgravità dell’Enea. Bevanda: acqua minerale della Val di Lanzo (costo 20mila euro al litro) purificata con argento e fluoro. Esistesse un “Alien Chef” per la cucina spaziale, la vittoria andrebbe senza discussioni all’Italia, capo-cuoco ufficiale del ristorante più stellato – non fosse che per la location – del pianeta: quello della Stazione spaziale internazionale (Iss). Dove il menu dei pranzi di gala nei giorni più importanti di ogni missione è rigorosamente all’insegna del gusto e della tecnologia tricolore.
«Prepararlo è stata un’impresa», racconta David Avino, direttore generale di Argotec, l’azienda di Torino scelta dall’Agenzia spaziale europea per il bonus food, quello usato per le “cene eleganti” sulla navicella. La cucina non è esattamente come quella di casa nostra: non ci sono fornelli – il fuoco è pericoloso –, manca il frigo (consuma troppa energia), l’acqua è distribuita con il contagocce. I paletti imposti dalla Nasa, poi, sono strettissimi: «Conservanti, zucchero e sale sono off-limits – spiega Avino – come tutto quello che fa briciole in grado di danneggiare la strumentazione». La conservazione a temperatura ambiente deve essere garantita «per 18-24 mesi» e le portate «devono essere adatte a persone costrette a vivere in condizioni estreme». A 430 chilometri di altezza dal suolo, in assenza di gravità e a una velocità media di 28mila chilometri all’ora – del resto – lo stress fisico fa invecchiare le cellule di dieci anni in sei mesi, accelera la decalcificazione delle ossa e atrofizza i muscoli.
Un’alimentazione adeguata è la chiave per ridurre al minimo il decadimento. John Glenn, il primo esploratore spaziale a mettersi a tavola sul Friendship 7 nel 1962, si è arrangiato alla buona, con un po’ di salsa di mele in tubetto. E con il terrore – in assenza di precedenti – di finire soffocato causa assenza di gravità. «Oggi tutto è cambiato – racconta Avino –. Si ragiona con i singoli astronauti per capire le loro esigenze, come abbiamo fatto con Samantha Cristoforetti. Si abbinano le conoscenze di nutrigenomica al gusto per la cucina di casa nostra». Il cuoco (Stefano Polato per AstroSamantha) lavora con medici, Nasa, nutrizionisti, fisiologi e Slow Food. Poi – scelte le ricette – le cucina e le trasforma in cibo spaziale. Impacchettandole in buste d’alluminio pluristrato da termostabilizzare o liofilizzare per la conservazione.
Tutto scientificamente freddo, in apparenza. Ma in realtà non è così. A bordo dell’Iss sono state servite caponata, lasagne, pasta al pesto e tiramisù. Buoni da mangiare – ha assicurato AstroSamatha – ma pure per il morale di chi sta sei mesi in clausura su una navicella, con i piaceri della vita ridotti al lumicino. La qualità non è andata a scapito della convenienza. Anzi: un pasto a bordo della Gemini agli albori delle avventure in orbita costava circa 300 dollari, sull’Apollo si era scesi a 180 circa. Ora la cifra è quasi dimezzata. Caffè compreso, visto che Cristoforetti si è regalata lo sfizio di una tazzina di “Isspresso” grazie a una macchinetta a cialde ad hoc per astronauti messa a punto da Argotec e Lavazza.
Il made in Italy di Alien Chef trionfa anche nel bicchiere. L’acqua minerale della Stazione spaziale è fornita dal 2008 dalla Smat, la municipalizzata di Torino. La vogliono tutti, russi e americani. «Da Mosca pretendono quella un po’ più pesante che facciamo arrivare dalle fonti di Grugliasco – spiegano in azienda – la Nasa chiede quella leggera di Venaria». La materia prima è la stessa che esce dai rubinetti piemontesi. Trattata con iodio, argento e fluoro per eliminare gli agenti patogeni pericolosissimi in orbita. Il tutto viene imbottigliato in armadi sterili da 400 litri, spedito a Houston e poi via-cargo all’Iss. Il prezzo è un po’ alto ma il risultato è una bevanda sicura al 100%. E i committenti sono soddisfatti se è vero che alla Smat è stato pure affidato lo studio per portare l’acqua su Marte: «La vera sfida in questo caso è trovare gli additivi per allungarne la scadenza a quattro anni, prevenendo contaminazioni», spiega Paolo Romano, ad della società. Ci vorrà un po’ di tempo. Ma il primo brindisi marziano, alla fine, sarà all’insegna del made in Italy.