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 2015  novembre 05 Giovedì calendario

Cordelli, recensendo lo spettacolo di Gabriele Lavia, dice che il Galileo di Brecht è superato dai tempi

Se si trattava di un confronto con l’edizione celeberrima di Giorgio Strehler, era un abbaglio critico sia del regista sia degli spettatori. Anche io ho visto quella Vita di Galileo di Bertolt Brecht del 1963. Lo vidi a Roma, ricordo benissimo Tino Buazzelli, ho una percezione dello spazio, della sua ampiezza, nulla di più. Chi può valutare uno spettacolo di teatro a distanza di mezzo secolo, per quanto ne sia rimasto colpito? Vale lo stesso per edizioni incontrate più tardi. Ricordo quella di Manfred Wekwerth, con il grande Ekkehard Schall e la sua gigantesca ellissi. Ricordo quella di Maurizio Scaparro, con Pino Micol e il suo ottaedro al centro della scena. Ricordo quella di Nanni Garella, con Virginio Gazzolo e i suoi ragazzi disabili – commoventi.
Tuttavia, nulla delle immagini di questi spettacoli ha una qualche plausibilità riguardo a un eventuale giudizio sull’edizione che Gabriele Lavia, per il teatro Nazionale di Toscana e quello di Torino, ha offerto del capolavoro di Brecht. Il vero problema che essa pone ai miei occhi la precede, riguarda il testo. Che capolavoro è, se siamo convinti che lo sia, Vita di Galileo ? L’avevo perfino riletto; e più vedevo lo spettacolo più mi convincevo della sua ineffettualità. Ineffettualità? Brecht ineffettuale? Ebbene, sì. In specie questa così didascalica commedia (o dramma, ma penso che commedia sia più giusto) manifesta i segni del tempo e dell’uso che se ne è fatto. Non c’è quasi niente in Vita di Galileo che ci colpisca nel profondo. Sappiamo tutto, sa tutto anche chi non lo ha mai visto. Sappiamo a memoria le sue sei o sette frasi famose e, se non le avevamo sentite dire sulla scena, le avevamo udite in una conversazione, o al cinema, o in televisione. Il potere e il fanatismo; la scienza e la ragione; la vita celeste (o degli astri!) e la vita terrena (anzi sensuale, la sensualità del tutto, perfino del dolore, è l’arma che Galileo brandisce di continuo); il peccato e la sensatezza dell’abiura; il maestro e gli allievi; quell’immagine della Chiesa cattolica del Seicento e quella di (ogni) oggi che fatalmente si ripropone come immagine di dominio – sebbene prima cruento poi non più. È tutta roba che, lo ripeto, non ci tocca. Non resta che lo spettacolo. Dividendo ciò che ci affascina e ciò che ci affascina assai meno, rimane la possibilità di valutare caso per caso. Due o tre cose non mi sono piaciute: le damigelle che introducono cantando le singole scene; il finale del primo atto, quasi un musical; l’aver fatto di quel cardinale ostile un semidemente, poiché «vecchissimo».
Mi sembrano belle le scene: quelle in puro grigio-bianco-nero e quelle romane, con i candelabri, con i loro ori e le loro fiamme. Fedele a se stesso fino al punto in cui egotismo e generosità coincidono, il protagonista Lavia – dubbio per es. quando si chiede un po’ irrisoriamente dov’è Dio e al posto dell’asciutta risposta di Brecht ne dà una troppo argomentata nella gestualità – è appassionato, spesso buffo, dolente nel monologo finale. Ricordo le belle prove di Lucia Lavia, di Francesca Ciocchetti (che non sbaglia mai) e di Pietro Biondi, che è Frate Fulgenzio.