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 2015  novembre 05 Giovedì calendario

Il vero capolavoro di D’Annunzio sono le lettere. Era capace di scriverne cinquanta in poche ore

La comunicazione informatica ha spazzato via carta e penna insieme con l’arte di scrivere lettere. A ricordarci che si tratta, oggi perduta, di una vera e propria arte, è Gabriele d’Annunzio, che di lettere ne ha scritte migliaia. Una mostruosità quantitativa non seconda, però, all’impeccabilità della scrittura, mai sciatta, mai improvvisata, per quanto urgenti o marginali siano i messaggi.
Qualcosa di più della padronanza del linguaggio e dello stile, perché la penna, quasi un prolungamento del corpo, è il sesto dito della sua mano destra che verga senza sosta pagine belle e folte, dove non mancano immagini folgoranti, arguzie a non finire e le «squisitissime inezie», come le chiama il mittente d’eccezione, che segnano la differenza. Non ci vuol altro poi che la sua elegante grafia, vergata (penna d’oca e inchiostro) sulla spessa carta di Fabriano, sonante al tatto e impreziosita dai motti, per fare delle lettere di d’Annunzio dei mirabili oggetti da collezione.
Si deve alla precoce notorietà di Gabriele, alla ribalta sin dall’adolescenza, la straordinaria conservazione dei suoi carteggi, non di rado, lui vivo e persino acquirente, venduti nelle aste. A causa appunto del numero eccessivo, non se ne è neppure profilata la pubblicazione in ordine cronologico. Invece auspicabile, l’impresa ciclopica chiarirebbe molti aspetti inquietanti del «vivere inimitabile» di d’Annunzio. Non si è lontani dal vero se si calcola di disporre, per ogni giorno della sua vita, nessuno escluso, di un manipolo considerevole di lettere.
A prestargli ascolto, gli bastano alcune ore per scriverne una cinquantina. Un record che equivale, una volta rotto il segreto della corrispondenza, a una sorta di intercettazione permanente. Si capisce che siamo di fronte a un settore capitale dell’opera di d’Annunzio, forse il più inerente alla sua personalità fattiva, se si pensa che egli ha definito la poesia «azione trattenuta». Perciò, la lettera, che mira ad agire sul destinatario, con lo scopo di affascinarlo, persuaderlo, ottenerne i favori, placarlo, è il genere che meglio rappresenta la sua arte pratica, strumentale. Se ci liberiamo da vecchi schemi di giudizio, qui si trova il fiore dei suoi capolavori.
Su chi intende agire d’Annunzio? Non certo su chi, inservibile, si trova lontano, ma su chi, nelle vicinanze immediate, sia pronto a esaudirlo. Al di là dell’amante di turno, bersagliata dalle parole su cui punta la conquista, si appostano i committenti, a cominciare dagli editori e dai direttori dei giornali per i quali scrive. Dagli uni e dagli altri si tratta di ottenere il compenso più alto e – una sua specialità – gli anticipi su quanto ancora non ha composto.
Le amanti e i committenti non risultano meno bersagliati dei segretari factotum, del personale di servizio, dei fornitori o degli artisti e artigiani all’opera per la decorazione delle sue dimore. Davvero da non perdere le lettere al fruttivendolo (autentici Arcimboldo di parole), alla cuoca (la ribattezza «Intingola» o «Ghiottizia»), al fotografo («artefice della luce e dell’ombra»), al muratore («maestro di cazzuola ottimo»), al «sottilizzatore di profumi», a orafi, argentieri, vetrai, ceramisti. Ne emerge un d’Annunzio domestico, non impettito e, soprattutto, ironico, ancora tutto da scoprire e da rivalutare, incline come pochi al riso e alla beffa. Quello che continuando a soccorrere il figlio, ventenne e svogliato, con un mensile oneroso, gli scrive sprezzante: «Ti mando l’assegno mestruale».
Quello che se una delle sue amanti deve farsi visitare dal ginecologo, si premura di tranquillizzarla: «Non temere lo spaventapassere». Quello che quando un’illustre nobildonna, sua ospite, gli sottrae uno dei tanti ninnoli (la marchesa Casati Stampa), la redarguisce: «Sono stato aviatore, ma cado dalle nuvole», non senza rovesciare, per protesta, il più celebre dei suoi motti: «Io non ho quel che non ho donato». Quello che al Vittoriale fa il verso alla pronuncia bresciana, dove la esse rimpiazza la zeta, avvertendo l’architetto Maroni: «Sono incassato, come una gemma preziosa».
Quello che si rivolge a Mussolini, dall’alto in basso, avviando regolarmente le lettere con il «Caro Ben» che è il suo Benito minimale, sempre che con il nome del duce non azzardi l’anagramma: «Ben – ito», cioè «bene andato». E una beffa per la censura fascista sono i piccioni viaggiatori che recapitano i suoi «colombigrammi», i messaggi inviati con i veloci volatili, che sigla con «Gabriele d’Annunzio colombiere».
Mentre ne modificano il volto, i carteggi intervengono anche sui tratti più enigmatici della leggenda. È veramente caduto, fracassandosi il cranio, dalla finestra della villa che presto farà parte del Vittoriale (tre metri e mezzo di altezza)? È il 13 agosto 1922, la vigilia della Marcia su Roma, alla quale il milite noto della guerra vittoriosa non partecipa. Perché non può o perché non vuole? In proposito, si segnala una lettera della Duse, che la sa lunga sul beffardo inventore di leggende.
Gabriele ha inventato a suo tempo la favola fortunata dei divi amanti, con lei vittima e lui carnefice (era vero il contrario). Adesso, l’attrice ha ragione di credere infondate le notizie diffuse sulla «caduta»: «Le leggende» gli scrive «sono tante, fra il volgo… Ho bisogno di vedere la verità» (4 ottobre 1922). La risposta non si fa attendere, anche se occorre qualche giorno per trovare il messo fidato che la consegni in tutta segretezza: «Non fui mai tanto ardente e forte» (14 ottobre 1922).