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 1999  aprile 22 Giovedì calendario

Due bravi ragazzi, nazisti per noia. Ecco chi erano Dylan Klebold e Eric Harris, quelli che hanno fatto strage alla Columbine

E dunque erano bravi ragazzi bianchi, i due ragazzi che hanno fatto strage di ragazzi. Non erano cani randagi, mostri, alieni, barboni, non erano figli del ghetto emarginato, zingari, serbi, albanesi, hippies, hezbollah, Hutu o Tutsi, bambini maltrattati da padri violenti o abbandonati da madri alcolizzate. Dylan Klebold e Eric Harris avevano solo 17 e 18 anni, la faccia bianca e foruncolosa dell’adolescente, i genitori premurosi, la villa nei sobborghi buoni, le due auto in garage.
E un intenso, divorante desiderio di morte nel cuore, una fame d’odio che hanno saziato ieri l’altro in un ultimo “Gotterdammerung”, un crepuscolo degli dei wagneriano ai piedi delle Montagne Rocciose “suicidando” se stessi e il loro mondo, la loro scuola, il loro annoiato benessere. Cancellando quel mondo che era stato con tanto orgoglio costruito per loro. Come vorremmo oggi che ci fossero stampelle razziali, stereotipi sociologici, chiavi politiche alle quali appoggiarci per non barcollare nello sbigottimento, per esorcizzare i volti dei nostri figli, di Eric e Dylan che ci guardano dalle fotografie dell’annuario scolastico del “Columbine High School”, una scuola tanto politically correct da avere adottato non il nome di un condottiero, ma del fiore ufficiale dello Stato del Colorado, la “columbine”, una sorta di stella alpina minacciata di estinzione.
Non possiamo neppure maledire i videogame, Internet, la televisione, la disponibilità delle armi, perché c’erano duemila studenti nel liceo della strage, tutti loro guardano la stessa tv, giocano agli stessi giochi, adoperano gli stessi computer, avrebbero facile accesso alle stesse armerie se volessero. Ma soltanto due di loro, soltanto Eric e Dylan hanno attraversato sparando ai compagni e dunque a sé stessi, il ponte senza ritorno della morte.
Dalla loro vita di ragazzi, dalle loro stanze luminose nel sobborgo di Littleton dove i genitori li avevano portati per fondare la comunità della stella alpina e per strapparli alle “città violente” oggi rovistate dalla polizia, spunta tutta la spazzatura che circola nelle fogne delle nostre sottoculture e affiora negli striscioni degli stadi, nei graffiti, nel sottomondo che preferiamo ignorare.
Un anno fa Eric e Dylan avevano formato un gruppo di ragazzi e ragazze, una ventina, una “cricca” come ce ne sono in tutte le scuole del mondo. Si erano battezzati la “Mafia del Trenchcoat”, dello spolverino da portare lungo, svolazzante e possibilmente nero, come in “C’era una volta il West”. Le madri glieli avevano comperati, sono tanto di moda, come negarli. Si facevano fotografare in gruppo, con le loro ragazze, Nicole, Krista, Pauline, accompagnando la foto con frasi da letteratura foruncolosa, “Non vivo senza la vita, non amo senza l’amore” e qualche, struggente, squarcio di malinconia profetica: “Noi ragazzi facciamo spesso cose delle quale poi dobbiamo rammaricarci” aveva scritto Dylan, nell’annuario del liceo. Per sentirsi insieme, per sentirsi meno soli nella luminosa solitudine del loro sobborgo.
Eric, che era il leader, odiava i neri, i latino americani, gli atleti delle squadre del liceo coccolati e arroganti e un giorno aveva scoperchiato il tombino del liquame neo-nazi, sado-rock, ariano, “Gotico” come si dice oggi, che gorgoglia sotto la superficie del nostro tempo. Ne era rimasto intossicato. Dal gioco dell’impermeabile nero, dicono i compagni, era passato ad avventure sempre più estreme, sempre più bizzarre. La sua “Mafia” aveva cominciato a perdere adepti, ultimamente erano rimasti soltanto una diecina.
Giocavano a “Dungeon and Dragons”, fanta medioevo, a “Doom”, all’apocalisse, un video gioco popolarissimo tra tutti i ragazzi, dove si devono abbattere i nemici con il fucile a pompa e farsi largo lanciando bombe e granate. Si mettevano al collo croci uncinate, parafernalia nazisti, teste di morto SS, rifacevano le grandi battaglie della Guerra in Europa, ma facendo in modo che questa volta vincessero i “nazi”. Non sapevano nulla di storia vera, di dottrine, di ideologie, ma il nazismo sembrava soddisfare come un hamburger, come una merendina carica di zucchero, la loro fame di autodistruzione.
A scuola studiavano il tedesco. Lo usavano come linguaggio segreto, come codice: le pagine di Internet che avevano costruito e che frequentavano erano pieni di “ueber alles”, “sieg”, “Juden raus”. Fra loro si chiamavano gli “Auslaender”, gli stranieri, gli estranei. Coloro che vengono da un’altra terra. In cantina, con gli attrezzi del papà tanto contento di sentirli trafficare laboriosamente, si costruivano bombe casalinghe, con pezzi di tubature di piombo, polvere presa dai proiettili svuotati, fulminato di mercurio come detonatore.
Erano ragazzi disciplinatissimi, ordinati. Mai una nota a scuola, mai un’espulsione, una sospensione. Non reagivano alle provocazioni: “Hey, Goti, andate a fare in...” gli dicevano i compagni quando attraversavano l’atrio, tutti in nero. Loro restavano seri: “Un giorno la pagheranno cara” disse Eric a Brooks Brown, un amico. Martedì mattina, prima di entrare al liceo per la strage, Brooks Brown fu avvertito da Eric: oggi non andare a scuola.
Tutti, i 13 compagni che sono morti, uccisi da loro che gridavano “Cucù sei morto” prima di sparare, i 20 feriti, gli scampati per un miracolo, i 2000 liceali di Littleton sarebbero potuti diventare Eric e Dylan. Le armi si vendono in Colorado come i gelati e anche bloccando la vendita in tutto il Paese, come andrebbe fatto immediatamente, ne circolerebbero a milioni di quelle vecchie per decenni. Detonatori e polvere sono diffusissimi in una terra di miniere. Ma soltanto loro lo sono diventati i massacratori del liceo. Soltanto loro hanno preso sul serio il “Gotico”, le SS rivisitate dallo hard rock, hanno bevuto l’odio contro sé stessi e dunque contro gli altri. Fino a quando non capiremo perché i bravi ragazzi uccidano, cadrà altro sangue sulle stelle alpine.