Libero, 4 novembre 2015
Quella folle passione per la montagna. Filippo Facci spiega perché ha accettato di partecipare al nuovo programma televisivo sull’alpinismo, che lo porterà sulla vetta del Monte Bianco
Credevo fosse uno scherzo. Telefonico. Da qualche mese, nel maggio scorso, passavo le serate a riguardarmi dvd sulla montagna (ne ho una collezione) e prima di addormentarmi consumavo pagine e pagine di memorialistica sul tema: film e libri su Messner, Bonatti, altri che forse non sapete chi sono, e insomma una totale immersione in avventure, spedizioni, reportage e documentari che raccolgo da anni insieme alla velleità – sempre rimandata, fallita di ricominciare ad andare per montagne come quando ero ragazzino, o magari iscrivermi a qualche corso di roccia, alpinismo, scialpinismo, arrampicata, boh. Perché il dettaglio è questo: da ragazzino prendevo e andavo assolutamente a caso, senza preparazione, senza attrezzatura, senza niente: e bene o male arrivavo in cima con le mie gambe e moltissima incoscienza. Ma ero un pazzo vero. Non è che disdegnavo il pericolo: lo cercavo espressamente. Anche perché l’altro dettaglio è che, tecnicamente, ero un incapace. Cioè: sapevo camminare in montagna – e assicuro che non è poco, il passo alpino si impara in una vita – ma non sapevo nulla di moschettoni, chiodi, imbraghi, nodi, cordate e quella roba lì, insomma cose che devono insegnartele.
Quindi credevo fosse uno scherzo, perché la telefonata in sostanza diceva: ciao, ti interessa partecipare a un «adventure game» in alta montagna in cui dovresti convivere con una guida alpina (anche di notte, in tenda) che ti insegnerebbe tutto il possibile e con cui sfideresti altre coppie? Una cosa anche di resistenza fisica, vivendo in campi base senza elettricità, senza telefoni, senza un tetto sulla testa, addirittura senza orologio e senza acqua corrente che non sia un torrente? Una gara a eliminazione con prove anche durissime che per premio finale avrebbe la salita del Monte Bianco?
«Eh, ci devo pensare». Fingere indecisione fu anche divertente, me la tirai un po’ e dissi di voler prima verificare che non fosse una baracconata sputtanante: anche perché avevo giurato a me stesso che a un reality show (e me l’avevano chiesto) non avrei mai partecipato. Ma non era un reality show, era – è – una cosa davvero diversa. Nessuna telecamera che ti ossessiona 24 ore al giorno se non per testimoniare prove sopra strapiombi e poi arrampicate, ferrate, salite su ghiaccio, sfide verticali (in pratica chi arriva prima in cima: un calvario) e insomma un corso full immersion su quel genere di montagna che avevo sempre sognato e rimandato: e per cui serve self control, preparazione fisica, forza di volontà, anche intelligenza e capacità di interagire con una guida alpina per tutto il giorno (che palle) con però la straordinaria prospettiva di poter salire quasi a 5000 metri, sul mitico Monte Bianco, la montagna per davvero.
Ma certo che accettai. L’avrei fatto anche se gli altri concorrenti fossero stati Alvaro Vitali, Luciana Turina e Rosy Bindi. Accettai anche se non sapevo, ancora, che sarei stato uno dei partecipanti più vecchi. Che un concorrente era un ex campione del mondo a Berlino 2006, due cosce così, che un altro era un vicecampione del mondo – in carica – di karatè, e pesava quasi 100 chili di muscoli. Che due femminucce (una di 26 anni) mi sovrastavano in altezza e avevano gambe da stambecco. Che gli organizzatori, tra i quali l’alpinista Simone Moro, forse nel timore di proporre prove blande o fighette, avevano in serbo esperienze da cardiopalma. Pazienza. Avevo voluto la montagna. Toccava pedalare.