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 2015  novembre 04 Mercoledì calendario

Un’analisi del sangue può salvarci dal cancro: «Se vengono individuate cellulecancerose, è possibile trattare il paziente prima che la malattia divenga ineluttabile, se è in remissione si rinnova la terapia»

Patrizia Paterlini non si stanca. Nell’ufficio al sesto piano dell’università Descartes inondato da un sorprendente sole parigino, accanto al laboratorio dove lavora la sua squadra, spiega mostrando filtri e foto di cellule, come è arrivata all’Iset, un test realizzabile come una qualsiasi analisi del sangue, capace di rivoluzionare la lotta contro il cancro. Onco-ematologa, nata in un paesino emiliano e passata per le università dell’Aquila e Bologna, ha scelto Parigi per continuare a combattere i tumori. Con una sola idea in testa: i pazienti. Cominciamo dall’inizio.
«I tumori uccidono attraverso l’invasione tumorale: un processo lentissimo che consiste nel passaggio di cellule da un tumore primitivo, solido, al sangue, fino alla formazione di metastasi in altri organi. Quando si forma, a meno che non si trovi in zone molto sensibili, cosa rara, la massa tumorale può essere eliminata chirurgicamente. Invece se le cellule tumorali restano per anni indisturbate nel sangue, alla fine formeranno metastasi e la battaglia sarà molto più difficile».
Significa che per anni un individuo può avere un tumore, senza essere malato?
«Sì, è così. Le cellule cancerose nel sangue sono a lungo inefficienti. Ed è proprio in questa fase che interveniamo noi. All’inizio della ricerca, circa quindici anni fa, siamo partiti da questa constatazione: se riusciamo a isolare e riconoscere le cellule tumorali all’inizio, quando sono rarissime, potremo intervenire e trattare la persona prima che la malattia diventi ineluttabile, quando la massa è ancora operabile e le metastasi non si sono formate».
Come si è arrivati al test citopatologia sanguigna Iset?
«È stata una vera sfida: in un millilitro di sangue, diciamo un quinto di un cucchiaio da minestra, ci sono in media dieci milioni di globuli bianchi, cinque miliardi di globuli rossi e, se sono presenti, una o due o tre cellule tumorali. E non è tutto: le cellule tumorali, se ci sono, non sono le uniche cellule non sanguigne, presenti nel sangue. Quindi una volta individuate le cellule rare nel sangue, bisogna anche essere sicuri che siano tumorali e non, per esempio, endoteliali o staminali».
Siete sicuri del risultato?
«Sicurissimi. Al contrario di altri gruppi di ricerca, in particolare uno molto grosso americano, abbiamo deciso di estrarre queste cellule basandoci solo sulla loro taglia: sono infatti tutte di dimensioni più grandi di quelle sanguigne. All’inizio nessuno ci avrebbe scommesso: tirare fuori una cellula su miliardi con un filtro? Non funzionerà mai, ci dicevano. Ma è qui che bisogna essere testardi nella ricerca. E noi siamo stati testardi. Sono andata da una ditta che faceva filtri per togliere i batteri dal latte. Con una giovane biologa italiana, Giovanna Vona, abbiamo lavorato per un anno su tutti i tipi di filtri, sui pori, sulle densità, e alla fine abbiamo trovato una combinazione di trenta parametri che ci consentiva di isolare dal sangue anche una sola cellula rara. Che gioia quando abbia avuto la nostra prima cellula. Siamo ancora gli unici a saperlo fare. Non si può andare oltre a livello di test. Per fare diagnosi senza errore poi, le cellule isolate vengono analizzate dal citopatologo, che, come nel caso del pap test, confermerà se sono tumorali o no. Per ora il test non dice da che organo le cellule derivano, bisogna cercare il tumore con l’imaging, in modo da poter localizzare il tumore solido e intervenire, ma prossimamente il test potrà dare anche questa risposta».
Se il test è positivo, ovvero se vengono individuate cellule tumorali nel sangue, che si fa?
«Dipende. Se il paziente ha già un tumore diagnosticato ed era considerato in remissione, si deve pensare a riprendere la terapia. Se il paziente con tumore è trattato, si deve considerare un cambiamento della terapia. Se invece il paziente non ha un tumore già diagnosticato, si fanno indagini di imaging per identificarlo».
Il test è preventivo?
«Sì. Il test rientra nella cosiddetta prevenzione secondaria: è uno strumento di diagnosi precoce come appunto il pap test, la colonscopia, o la mammografia. Precisamente, Iset è basato su un prelievo di sangue, dunque identifica senza errori l’invasione tumorale nel sangue al momento del test».
In quali laboratori si può svolgere il test?
«Per ora uno a Parigi, e uno a Napoli, il laboratorio Sdn, l’Istituto di ricerca diagnostica e nucleare».
Quanto costa?
«Siamo agli inizi della commercializzazione di un’innovazione medica che appartiene all’Università Paris Descartes e ad altri Istituti pubblici francesi, e che ha richiesto più di 15 anni di lavoro e un alto costo in brevetti. Il costo del test è stato ridotto al massimo, ma è ancora alto, 486 euro. Noi speriamo che un uso più largo possibile faccia abbassare il costo e soprattutto che i poteri politici si rendano conto che questo test farà diminuire la mortalità dovuta a tumore e anche i costi legati alle terribili, lunghissime e costosissime terapie spesso inefficaci. Ci auguriamo che sia presto rimborsato e disponibile per tutti».
Lei consiglia uno screening generale?
«Penso che la “Citopatologia sanguigna Iset” dovrebbe diventare routine, come un esame classico del sangue. Si farà il test senza pensarci e i tumori, tutti i tumori solidi, saranno diagnosticati molto prima e così moltissimi pazienti saranno salvati con una spesa minima».