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 2015  novembre 04 Mercoledì calendario

Scurati ricorda le Cinque giornate e il suo pittore, Francesco Hayez

La leggenda narra che durante l’insurrezione di Milano del 1848 i pittori fossero in strada con tele e cavalletto per ritrarre l’evento memorabile dal vivo e in presa diretta e che Francesco Hayez fosse tra questi.
Già al quinto giorno di lotta, il 22 marzo, l’insurrezione si avviava verso la sua fine, e sarebbe stato un finale in grande stile. Pare che gli insorti di Milano si fossero imbellettati e fossero accorsi a Porta Tosa, dove si sarebbe combattuta la battaglia decisiva, in abito da sera. I signori maneggiavano i fucili dentro camicie di seta e frac a coda di rondine, le signore arringavano la folla splendendo nei loro abiti di broccato ed esibendo la grazia dei loro preziosi decolleté in faccia agli oppressori austriaci. Quei balconi dei palazzi disposti lungo il corso di Porta Tosa erano così diventati palchi d’opera e, al tempo stesso, avamposti di tiro. Su ciò che stava per accadere sotto Porta Tosa, fosse stata la vittoria o la sconfitta, il trionfo o la rovina, sarebbe comunque scesa la benedizione del dramma musicale. Quella sera del quinto giorno di lotta, tutta la città era a teatro ma c’era andata a vedere se stessa. Un teatro all’aria aperta, un teatro di guerra.
La città sulle barricate
Le leggende sono sempre vere. Vere di una loro ammirevole verità poetica. La verità della leggenda di Porta Tosa sta in questo: la vittoriosa insurrezione di Milano, e l’intero Risorgimento, resterebbero inspiegabili senza le immani commozioni di cui soltanto l’arte è capace. Quando il 18 marzo 1848 i milanesi insorsero contro l’occupante austriaco, la possibilità di successo dell’insurrezione erano pura fantasia. Di lì a cinque giorni, però, quella vittoria accadde e, accadendo, aprì uno squarcio nel tessuto della storia. Nel giro di poche ore, quella città, per mano dei suoi stessi abitanti, fu demolita e ricostruita, disgregata nella fibra più intima delle sue private abitazioni e riaggregata nelle pubbliche vie nelle più precarie e memorabili opere di edilizia civile che la storia del mondo contemporaneo conosca: le barricate. Non soltanto la cittadinanza insorse quel 18 marzo 1848, ma la città stessa di Milano, la sua forma urbis, insorse a difesa di se stessa. La città salì sulle barricate e nelle barricate.
Già al secondo giorno di lotta, Milano era disseminata in più di mille barricate che, di quartiere in quartiere, riflettevano in uno specchio frantumato l’intero spettro delle condizioni di vita dei suoi abitanti. Ci si barricava dietro tutto, dietro la ricchezza e dietro la miseria, dietro gli utensili del lavoro e dietro le comodità del riposo, nelle cose sacre e in quelle profane. Fu una città senza «interni» in quei giorni Milano, tutta letteralmente riversa nelle strade (difficile immaginarlo oggi nella capitale dell’interior design, dove quasi tutta la bellezza è coltivata negli interni del privato e diserta gli spazi pubblici). In quelle cinque giornate, disseminata di rovinose barricate, Milano conobbe l’appassionata bellezza convulsa del secolo Decimonono, l’ultima epoca in cui, in questa parte di mondo, si fece la rivoluzione per le strade.
Grande Bellezza nell’800
Questa concezione interamente politica della bellezza, e per niente decorativa (come nella nostra attuale Grande Bellezza), fu opera di artisti quali Francesco Hayez. La storiografia più recente ci ha insegnato che il Risorgimento, prima di divenire una realtà storica, fu, alla sua origine, un’invenzione artistica, una potentissima macchina mitopoietica che, infiammando l’immaginazione attraverso narrazioni creatrici, generò le condizioni psicologiche, emotive, spirituali, perché si realizzasse quella Nazione italiana che all’epoca aveva lo statuto di una chimera, più che di un’utopia. Quella trascinante forza comunicativa si sprigionò principalmente da un ampio ventaglio di forme d’arte popolare – la pittura, la poesia civile, il romanzo storico, il dramma musicale. La prima formidabile invenzione dell’immaginazione creativa italiana fu l’Italia stessa.
Ad Hayez più che a chiunque altro riuscì l’impresa di erotizzare la politica. Il pittore dei temi storici che rende il popolo protagonista (I vespri siciliani, Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria, La distruzione del tempio) e quello de Il bacio, dei taccuini erotici, dei nudi impudichi mai visti prima nell’arte (Santa Maria Maddalena penitente nel deserto) sono una cosa sola. Rappresentando la Patria non come una vecchia matrona ma come una giovane donna avvenente, ammiccante, discinta e mortificata dallo stupro dello straniero (si veda la Meditazione, suo capolavoro) impollinò lo spirito patriottico con l’immaginario erotico, fecondò la Nazione con il sesso. La passione amorosa divenne passione civile. E viceversa.
Una lezione che la Milano in cui s’inaugura questa nuova mostra dell’opera di Francesco Hayez è forse di nuovo in grado di ricordare. E di insegnare di nuovo all’intero Paese.