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 2015  novembre 04 Mercoledì calendario

Parla il veterinario-cacciatore: «Non c’è contraddizione, la caccia fa parte della mia cultura»

«Sono frastornato. Mi trovo a dover rispondere per una fotografia vecchia di cinque anni. Adesso perfetti sconosciuti mettono in dubbio la mia professionalità, il mio lavoro e l’amore che ho sempre avuto per gli animali». Luciano Ponzetto, 50 anni, è il veterinario cacciatore di Caluso, nel torinese. L’immagine di lui, accovacciato alle spalle di un leone ucciso in Tanzania, ha fatto il giro del web.
In studio, lei cura gli animali. Nel tempo libero, invece, spara e uccide. Non trova che ci sia una contraddizione?
«Nient’affatto. Fa parte della cultura contadina che mi ha cresciuto. Rispetto le regole e le leggi di ogni Paese. E in Italia nessuno vieta a un veterinario di imbracciare un fucile e cacciare».
E la sua coscienza?
«Dall’età di sei anni ho sempre saputo di voler fare questo mestiere. E allo stesso tempo aspettavo il rientro dei cacciatori per vedere le loro prede. Ho questo istinto, anche se dopo aver ucciso, c’è sempre un po’ di amarezza. Ma mi creda: non sono una mosca bianca. Conosco tanti colleghi che si trovano nella mia stessa situazione. Non faccio nomi per evitare che anche loro passino quello che sto passando io».
È vero che si è già rivolto ai carabinieri?
«E che altro avrei dovuto fare. Su internet sto leggendo di tutto. C’è chi mi vuole investire con la macchina. Chi mi vuole sparare in fronte. Mi hanno cercato anche a casa. Fortuna che non tutti la pensano così».
Chi la difende?
«I clienti del mio studio di Caluso. Chi lavora con me nel canile del paese, che seguo da anni. Anche quelli che non condividono le mie passioni sanno che sono un professionista».
Tanti suoi colleghi, però, si sono rivolti all’ordine dei veterinari per chiedere la sua radiazione dall’albo…
«Mi rimetto alle loro decisioni, ma so bene di non aver fatto nulla di irregolare. Faccio questo mestiere da più di 25 anni. Qualcuno, sempre sui social network, scrive che sarei uno facile all’eutanasia. È una frottola: quando si decide di sopprimere un animale, lo si fa perché non c’è altra scelta e con il consenso del suo padrone. Non sono un assassino».
E questi viaggi, in fin dei conti non hanno lo scopo di uccidere?
«No. I safari in Africa, i tour in Nepal e in Pakistan a cui ho avuto la fortuna di partecipare, sono prima di tutto delle avventure. Ho vissuto esperienze indimenticabili, notti trascorse nella neve, in condizioni proibitive. Il fatto di poter rientrare a casa con una sorta di trofeo, una preda uccisa, è solo un aspetto secondario. Tanti dimenticano che la sopravvivenza di certi parchi è retta anche da questa forma di turismo».
Continuerà a cacciare?
«Fino a quando le leggi lo permetteranno. Se un giorno dovessi fare una scelta, di sicuro sceglierò quella professionale. Ma quello che per tanti è un hobby inaccettabile, è un pezzo della mia vita, della mia cultura e delle tradizioni che oggi tutti vorrebbero dimenticare».