la Repubblica, 4 novembre 2015
A proposito del processo di Mafia Capitale che comincia domani. La questione è proprio questa: se possa essere definita “mafia“ anche questa oppure se tutto vada derubricato a una banda di rubagalline
Anticipato dalla sentenza di condanna nel primo di due riti abbreviati che ne erano il prologo e da quattro patteggiamenti, il processo di primo grado che si apre domani mattina di fronte alla decima sezione penale del tribunale di Roma ai 45 imputati (una ventina ancora detenuti) dell’inchiesta “Mafia Capitale”, all’«organizzazione mafiosa» accusata di aver insieme sequestrato e inquinato, almeno a far data dal 2008, la volontà politica e l’amministrazione del Comune di Roma, ha una posta in gioco molto alta. Che ne spiega la vigilia nervosa. Gli avvocati delle camere penali di Roma hanno denunciato nei giorni scorsi per violazione del segreto istruttorio i 78 cronisti e i 18 direttori di testata che in questi dieci mesi hanno documentato il dettaglio del Sistema Buzzi- Carminati (tra questi Lirio Abbate dell’ Espresso, cui Carminati, da libero, vagheggiava di rompere le ossa), perché l’esercizio legittimo del diritto di cronaca avrebbe irrimediabilmente inquinato la serenità del giudizio. Mentre, il 9 novembre, sempre gli avvocati delle camere penali di Roma sciopereranno per denunciare la «violazione del diritto di difesa» per la decisione di escludere dall’aula di udienza, confinandoli ad una presenza in sola videoconferenza, i quattro imputati principali del processo, quelli ritenuti dalla pubblica accusa i “capi dell’organizzazione mafiosa” (Massimo Carminati, Salvatore Buzzi, Riccardo Brugia, Fabrizio Testa). Di più: per la fissazione di un calendario che prevede 4 udienze settimanali nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, anche queste «incompatibili», a quanto pare, con un «pieno e corretto esercizio del mandato difensivo».
Entrambe le mosse tradiscono la tentazione di difendersi “dal processo” prima ancora che “nel processo”. E incrociano anche l’ultima “provocazione” di Salvatore Buzzi, che chiederà in apertura di dibattimento di poter chiudere il suo conto con la giustizia penale con una patente da rubagalline, come va dicendo di essere dal giorno del suo arresto. Vale a dire con il patteggiamento a una condanna a 3 anni e 9 mesi che escluda il reato di mafia (proposta già respinta due volte dalla Procura). Ma questa vigilia, in qualche modo, conferma come, nella città che aveva ascoltato la parola “mafia” associata ad organizzazioni criminali “autoctone” l’ultima volta venticinque anni fa, quando alla sbarra fu la Banda della Magliana, il problema sia proprio in quella parola: mafia. E come il processo istruito dalla Procura di Giuseppe Pignatone segni la rottura di un canone giudiziario dagli esiti imprevedibili e per questo temutissimi. A maggior ragione dopo che, nella primavera scorsa, una sentenza della Cassazione, nel respingere il ricorso contro le ordinanze di custodia cautelare nei confronti di alcuni dei principali imputati, ha sancito che “mafia” e “Roma”, che “mafia” e “corruzione dei colletti bianchi” non sono affatto termini di un’equazione impossibile. Che l’intimidazione non deve necessariamente avere le sembianze della lupara o della coppola storta.
Del resto, la storia documentata da tre anni di inchiesta del Ros dei carabinieri, svela quale baratto “mafioso” abbia governato Roma per oltre un lustro. Nella “Terra di mezzo” (copyright Carminati), il Mondo di Sopra – quello del Palazzo della Politica – e quello di Sotto – i mozza orecchi di strada – compravano e vendevano. Appalti, assunzioni di famigli o familiari nella pletorica e apparentemente senza fondo macchina amministrativa del Comune (50 mila addetti). Consegnavano al monopolio di una cooperativa per il reinserimento dei detenuti (la “29 Giugno” di Buzzi) e alla regina delle coop bianche (“La Cascina”), forti anche delle mosse da baro di un insospettabile seduto nelle commissioni di garanzia al Viminale (Luca Odevaine), il lucroso business dell’accoglienza degli immigrati («più conveniente della droga», se la rideva compiaciuto Buzzi), piuttosto che della cura del verde urbano o della raccolta dei rifiuti. La «Mucca» – per dirla ancora con le parole di Buzzi – per essere “munta” andava fatta «mangiare». E dunque, in un’aula consiliare ridotta a suk, Buzzi e Carminati avevano trovato il modo di far quadrare sempre e comunque “offerta” e domanda”, a dispetto delle maggioranze politiche. Con 30 mila euro al mese, si poteva comprare un presidente di assemblea, piuttosto che una variante di bilancio. Con qualche migliaio di euro ci si assicurava il “servizio” di consiglieri comunali di seconda fila. L’importante era «scommettere su tutti i cavalli». La «mucca» ruminava appalti. Le sue mammelle distillavano prebende in contanti. Come pure tangenti a cinque zeri a figuri come Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama (la municipalizzata per i rifiuti) e tasca del sindaco Gianni Alemanno, alla cui fondazione girava parte della cresta ( centinaia di migliaia di euro) imposta per pilotare le commesse alla “29 Giugno” di Buzzi.
Brevettato con il centro-destra al governo della città, il Sistema Buzzi-Carminati conta sul vincolo indissolubile di antiche militanze nere. Riccardo Mancini, che di Alemanno era il tesoriere, di Massimo Carminati era stato compagno di “batteria” nelle rapine di autofinanziamento di fine anni ’70. E per questo continua a prendere ordini. Fabrizio Testa e Luca Gramazio ( facilitatore dell’organizzazione il primo, capogruppo del Pdl in comune e regione il secondo) sono figli della destra sociale cresciuti nel mito politico di Carminati. Ma il Sistema, libero dall’impaccio romantico dell’Idea, ha buon gioco a riconvertirsi con la consiliatura che esprime una nuova maggioranza e un nuovo sindaco, Ignazio Marino. Fino al dicembre del 2014, quando la prima delle due ordinanze di custodia cautelare scoperchia il verminaio. E quella parola – mafia – diventa lessico familiare di una città.