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 2015  ottobre 31 Sabato calendario

Da Zico a Del Piero, da Corso a Roberto Carlos, da Mihajlovic a Pjanic: breve catalogo dei maestri delle punizioni

Sono dei capolavori, ammirarli una volta sola non è sufficiente. Solo guardandole e riguardandole le più belle punizioni della storia della Serie A si possono apprezzare in ogni loro dettaglio, dal tipo di rincorsa alla traiettoria. A studiare questi inarrivabili interpreti del calcio piazzato – Mihajlovic che ne ha buttati dentro più di tutti (28), l’imprevedibile Robi Baggio o il precursore Mario Corso, inventore della “foglia morta” – ci si può spingere persino ad analizzare il movimento della caviglia, se solo si ripensa a come Mihajlovic chiudeva la rincorsa inclinando il piede d’appoggio, il destro, quasi a simulare una distorsione per poter imprimere la massima potenza sul sinistro. Il 13 dicembre 1998, in LazioSamp 5-2, ci riuscì tre volte (nessun altro l’ha emulato). Chissà se il doriano Ferron, il portiere che quei tiri li vide solo arrivare dentro la porta, avrà dimenticato quel giorno di Santa Lucia.
Dettagli, quindi. Come la faccia e i gesti dei portieri appena uccellati dalle palombelle spedite all’incrocio da Michel Platini (che aveva una particolare predilezione per il “sette” della porta del Torino), dalle traiettorie sghembe di Branco (il suo gol del 1990 nel derby con la Samp per i genoani viene dopo solo De André) o dalla forza dei tiri a effetto di un altro piccoletto eccelso come il galinho Zico. Altro che i dialoghi celati dalla mano davanti alla bocca (se ne vedono persino nel riscaldamento, ormai...): quelle reazioni plateali ci sembrano oggi quasi fanciullesche nella loro istintività. Prendiamo Roberto Sorrentino, padre di Stefano numero 1 del Palermo di oggi: dopo aver osservato entrare in porta, impotente, la punizione di Zico in un Udinese-Catania del settembre ‘83, con un eloquente gesto della mano ripetuto più volte, sembrò dire: “ma questo da dov’e venuto?”. Altri suoi colleghi si sono limitati a esternare con una mimica di ghiaccio la frustrazione di fronte a una punizione di Del Piero alla... Del Piero, emanazione dei celebri tiri in movimento che nell’autunno del 1995 consacrarono le doti balistiche dello juventino – o a uno dei 12 millimetrici tiracci vincenti di Ciccio Lodi, tutti tranne uno inventati nel giro di due anni e mezzo. La punizione calibrata, “ideologicamente” opposta a quella di sola potenza che resta comunque un evergreen, nacque, un po’ come la penicillina, quasi per caso. Il Fleming di turno è il brasiliano Didì, l’anno il 1955. «In quel periodo un pestone al piede mi aveva bloccato a lungo», spiegò a fine carriera il centrocampista campione del mondo 1958 e 1962. «Tornato in campo, avevo provato a calciare come sempre col collo del piede, provando però un dolore insopportabile. Fu allora che ebbi l’intuizione di calciare una punizione con due sole dita del destro. Il pallone disegnò una traiettoria insolita, impennandosi prima di ricadere morbido alle spalle del portiere. Riprovai più volte e sempre con lo stesso esito. Da quel giorno non smisi mai di calciarle così». Prima che nel 1980 la riapertura agli stranieri porti con sé lo sbarco dei maggiori luminari in circolazione, l’unico a raccogliere il testimone del brasiliano fu Mario Corso, il primo in Italia a saper accarezzare il pallone sui calci da fermo. Se Sorrentino, nell’83, rimane esterrefatto, figuriamoci i suoi omologhi vent’anni prima, quando si pensava che una manciata di marcantoni in barriera bastasse per respingere i colpi di collo pieno. Con la celebre “foglia morta”, la palla dell’interista, vigliacca e geniale, s’abbassa repentinamente, finendo sempre nell’angolino basso dietro la barriera. La rivoluzione è arrivata: il muro non va più preso a sassate, basta aggirarlo o scavalcarlo. Più che a Didì, però, Corso ha sempre reso onore a Nereo Marini. «Era l’allenatore che avevo da ragazzino all’Audace di San Michele Extra. Mi obbligava a un surplus di lavoro, tiri su tiri dai venti metri. Non è che potessi metterci sempre potenza, così mi rifugiavo nell’effetto».
Dopo gli Anni 70 delle maniere forti usate da Benetti (Juve), Antognoni (Fiorentina), Di Bartolomei (Roma) e Chiarugi, che con una rasoiata sul palo del portiere regala al Milan anche la Coppa delle Coppe del ‘73, dal decennio successivo per la Serie A inizia l’abbuffata. Se Maradona è il depositario dei tiri a effetto, Platini, meno istintivo e più razionale del Pibe, li alterna a furbi colpi sotto la barriera che salta o, nei calci a due, a colpi di collo esterno. Lo specialista dei calci indiretti resta comunque Beppe Signori (10 su 22), mentre Roberto Baggio, qualunque sia il muro, trova pertugi in tutto lo specchio della porta. Un esempio: nello spareggio per la Champions del 2000, avversario il Parma, tira poco fuori dall’angolo destro dell’area infilando Gigi Buffon, andando a togliere la fatidica ragnatela dall’incrocio: una soluzione quasi contro natura visto che calcia con il destro nel fazzoletto riservato, a logica, ai mancini. Una volta che il Codino lascia la Juventus, a raccoglierne l’eredità è Del Piero, famelico in campionato e in Coppa, ma l’esultanza della “linguaccia” arriva solo nel 2006, in un Inter-Juve 1-2 che decide da fermo all’88’. Niente facce strane, invece, per Miralem Pjanic: oggi, dopo otto giornate, ne ha segnate tre ma già nel 2012 aveva irriso Marchetti tirando quasi da metà campo in un derby con la Lazio. In ogni caso, l’evoluzione delle punizioni in A si divide in due epoche: Avanti e Dopo Pirlo. Per spiegare la sua “maledetta” sono state scomodate, oltre all’estro e alla classe, la fisica e la scienza. Lui, nell’autobiografia, definisce i suoi calci da fermo “palloni che viaggiano con l’effetto, racchiusi dentro una definizione che non mi dispiace (“alla Pirlo”; ndr), dentro una parabola quasi biblica”. Si ispirava a Juninho Pernambucano, brasiliano come Roberto Carlos che, in Francia-Brasile della Confederations 1997, fece fare al pallone le montagne russe. Fabien Barthez, il portiere di quella Francia, 18 anni dopo, metaforicamente è ancora lì, immobile con le mani sui fianchi a chiedersi pure lui “ma da dove viene questo qui?”.