Sportweek, 31 ottobre 2015
Quella punizione di Maradona contro la Juventus che ha fatto la storia del Napoli e del calcio italiano. Era domenica 3 novembre 1985
Lui non fa una piega, quando gli chiedono come fece. Alza la mano, imita il gesto della palombella, sorride e va via. I geni sono così. Non raccontano, fanno. Wolfgang Amadeus Mozart spiegò poco o nulla del suo Don Giovanni, la storia di quell’opera è nella musica, non occorre altro. Sono i mediocri a lasciarci tonnellate di pagine che nessuno leggerà. Quel giorno, dopo la partita, Maradona disse solo: «Un gol azzurro. Lo dedico alla città, perché chi non abita a Napoli non può capire come sia attesa la partita con la Juventus». A Bruscolotti, il capitano che protestava con l’arbitro perché la barriera era a soli cinque metri, qualcosina Diego, prima di tirare, aveva detto: «Lascia stare, tanto segno lo stesso». E così fece.
Domenica 3 novembre 1985. Il Presidente della Repubblica era Francesco Cossiga, Amintore Fanfani era al Senato, Bettino Craxi presidente del Consiglio e Giulio Andreotti al Ministero degli Esteri, un’era geologica fa, nomi che per i giovani risalgono al Quaternario. In quei giorni si discuteva di un’intervista rilasciata da Nilla Pizzi. La grande diva del passato diceva di sé: «Ho avuto moltissimi amori, altrimenti non mi sarei fatta un’esperienza. E dopo essermela fatta ho deciso che era meglio stare da sola».
Non cambiava mai niente, in quegli anni. E lo scudetto lo vinceva sempre la Juventus. Qualcosa, in verità, l’anno prima era successo: sovvertendo ogni pronostico il titolo lo aveva conquistato una provinciale, il Verona. Un affronto, per la Vecchia Signora, e non stiamo parlando di Nilla Pizzi. Il tricolore doveva tornare a casa e infatti, in quel campionato, la Juventus partì fortissimo: otto vittorie su otto. Poi, quella domenica, andò a Napoli. Il Pibe vi era arrivato da un anno, polverizzando record di incassi e di abbonamenti: solo quelli. La squadra non era granché, aveva chiuso la stagione precedente a metà classifica, però in estate era stata completata da Garella, Renica, Pecci, Giordano ed era partita con ben altro passo; una sola sconfitta in otto gare e il 5-0 a un Verona, in realtà, già in fase calante. Ci voleva qualcosa che galvanizzasse la gente, un punto fermo da cui partire sul serio, uno snodo cruciale: eccolo, la Juventus. Mai battuta in campionato negli ultimi 12 anni, la squadra di Platini e Tacconi, Cabrini e Scirea. Praticamente invincibile, il simbolo di un limite mai superato: tutti i Napoli precedenti, quelli in odore di scudetto, erano sempre andati a sbattere lì, contro quelle maglie bianconere, odiate e al tempo stesso un po’ invidiate.
Quando comincia la partita, quel 3 novembre 1985, lo stadio è esaurito e, come sempre, sono botte da orbi, l’arbitro Redini espelle Bagni e Brio, i più focosi, la Juve sta dietro, assediata dal furore agonistico del Napoli, che attacca, impegna Tacconi, ma non segna. Poi, a un quarto d’ora dalla fine, c’è una punizione a due in area. Protestano gli ospiti per la decisione, protestano i padroni di casa perché la barriera è troppo vicina al punto di battuta. Anche se al governo c’è un socialista, il pisano Redini arbitra ancora alla democristiana e se ne lava le mani. Pare dica: «La punizione ve l’ho data. Per la distanza, arrangiatevi». Non sono 9 metri, forse 8, diventano 7, probabilmente 6, sicuramente 5, la diga bianconera avanza, il campo è fradicio per la pioggia, la posizione è defilata, umanamente impossibile.
Sulla palla c’e Eraldo Pecci, parlotta con Diego. Ecco il dialogo, così come oggi, a 30 anni di distanza, lo ricorda il primo. Maradona: «Toccamela un pochino indietro». Pecci: «Ma non ci passa!». Maradona: «Toccamela un pochino dietro». «Diego, meglio se la do dietro a Renica». Maradona: «Ti ho detto: toccamela un pochino dietro». Pecci: «Ok, Maradona sei tu, fa il c... che ti pare».
Mentre sta per partire la punizione, Napoli è solo una squadra di media-alta classifica, una squadra disperata e simpatica, una squadra che non vince mai. L’arbitro fischia e lo stadio è colto da un fremito. Dietro la porta, fra i tanti, c’è anche il presidente Corrado Ferlaino. Che poi ricorderà: «Prima di quel match ci eravamo sempre sentiti perdenti. Ma poi...». Il pallone va alto, di colpo scende giù. «Fece un colpo sotto incredibile», ricorda Pecci. «Queste cose non sono frutto del pensiero normale, già ipotizzarle ti accomuna a un Leonardo Da Vinci». La radiocronaca di Enrico Ameri a Tutto il calcio minuto per minuto: «Reteeeee, magnifico gol su punizione di Maradona!».
Dall’altra parte, c’è Stefano Tacconi, il portierone. «Vedo la palla solo all’ultimo momento, poi entra e io mi trovo in rete, Scirea e Cabrini mi guardano: ma che cos’hanno da guardare? E comunque, sono nella storia se ancora oggi, dopo 30 anni, mi ricordano per quella punizione». E capitan Bruscolotti: «Vedo Tacconi con la faccia sul palo e la palla in rete. Me lo ricorderò per tutta la vita». Pecci, 30 anni dopo: «Poi Diego lo presi in giro, gli dissi che in fondo l’assist glielo avevo fatto io. E lui sghignazzava e mi mandava a cag... Come quando gli dicevo di seguire i miei consigli, se voleva migliorare di testa e col destro. Quanto abbiamo riso, eravamo amici, abitavamo nella stessa casa, io a piano terra lui al secondo».
Il Napoli, invece, sale al terzo, come posto in classifica in quel campionato comunque vinto dalla Juve. È il trampolino per arrivare allo storico scudetto nella stagione successiva, ma tutto cominciò da lì. Da quell’1-0 alla Juventus, da quel 3 novembre 1985, da quella punizione. Se ne trovate una simile, telefonateci: fra altri 30 anni.