Sportweek, 31 ottobre 2015
Confessioni di Federico Bernardeschi, il giovane numero 10 della Fiorentina che non ha paura dei paragoni con Baggio e Antognoni
Giochino facile facile: chiedete ai ventenni di vostra conoscenza se sanno chi sia Audrey Hepburn. Scommettiamo che vi risponde di sì uno (forse) su dieci? Noi quell’uno lo abbiamo trovato. E, per la verità, mai avremmo pensato di iniziare la nostra intervista parlando proprio di lei, l’attrice protagonista di Vacanze romane (con Gregory Peck, per informazioni chiedete alle mamme) e Colazione da Tiffany, capolavori della cinematografia girati rispettivamente nel ‘53 e nel ‘61. Federico Bernardeschi, ventunenne attaccante della Fiorentina, fenomeno annunciato del calcio presente e futuro, non soltanto conosce entrambi i film a memoria, ma la Hepburn se l’è tatuata addirittura sul braccio sinistro. «Nei tatuaggi non vado dietro alle mode, sono qualcosa di personale, e a me Audrey Hepburn piace parecchio. Come Marilyn, del resto».
Ma perché tatuarsela?
«Perché l’ho sempre immaginata come una persona di grande fantasia. Una ragazza pulita, ma di personalità. La prima volta che l’ho vista, però, sono rimasto colpito dalla sua bellezza».
Che cos’è per lei la fantasia?
«Un qualcosa di innato. O ce l’hai o non ce l’hai. Non puoi costruirtela».
Lei, da calciatore, quando si è accorto di esserne dotato in abbondanza?
«Da subito. Da bambino e da professionista ho giocato allo stesso modo: d’istinto. Non ragiono sulle cose da fare».
Il “colpo” che da piccolo, prima di addormentarsi, sognava di imitare?
«Il gol di Totti a San Siro contro l’Inter nel 2005, un pallonetto dal limite a scavalcare Julio Cesar».
Quante volte ci ha provato da allora?
«Non tante, perché non è facile neanche riuscire a trovarsi nella stessa situazione. Diciamo che con l’Under 21 ci sono andato abbastanza vicino, ma non era un “cucchiaio” bello come quello di Totti».
E qual è, invece, la giocata che le riesce meglio?
«Il dribbling. A destra o a sinistra, verso l’interno o l’esterno del campo. Un dribbling senza troppe finte: uno scarto secco e via. Perché ciò che conta, una volta che hai messo a sedere l’avversario, è che tu sei uno in più e loro uno in meno».
Gli allenatori che ha avuto, in B a Crotone e a Firenze, l’hanno provata un po’ dappertutto: esterno, seconda punta, trequartista. Dovesse scegliere lei il suo ruolo...
«Trequartista o seconda punta. L’importante è che sia dalla metà campo in su e che possa avere libertà di movimento per inventare».
A proposito: chi ha costruito la cupola del Duomo di Firenze?
«Fermi tutti ragazzi, c’è un problema...».
Dài, Bru...
«Brunelleschi. Dovevo capirlo». Ride.
Adesso ha capito il perché della domanda...
«Sì: Brunelleschi è come sono stato ribattezzato da molti tifosi».
La fa sorridere? La inorgoglisce?
«Un po’ tutte e due. Certo non mi crea pressione. Firenze e la Fiorentina le sento mie, mi piace uscire per strada e confrontarmi con la gente».
Cioè, non è di quelli dell’autografo a testa bassa e via?
«No, no. Io con i tifosi mi fermo a chiacchierare. In fondo noi giochiamo per loro, no?».
Vorrebbe far credere che lei si diverte ancora, a giocare?
«Sempre, a ogni allenamento. Quando sono in campo sono spensierato».
Tra dieci anni sarà diverso?
«Certamente entreranno altre cose, il business, si dice così? Ma finché mi resta la passione, non ci sono problemi».
Da Wikipedia: “Un tratto distintivo dell’arte di Brunelleschi era dato dalla purezza delle forme”. Nel suo calcio qual è la forma perfetta?
Riflette. «La forma perfetta? Il cerchio, il pallone».
Ha detto una volta: sono di Carrara, quindi duro come il marmo che estraiamo dalle nostre cave.
«Ho un carattere un po’ duro, sono molto orgoglioso. Geloso della famiglia e degli amici più stretti: sono tasti che non voglio siano toccati. Anche perché io stesso in questo momento metto la mia vita privata in secondo piano. Non perché non sia importante, ma perché ora devo solo pensare al calcio. La carriera non dura un’eternità, mi pare giusto dedicarsi completamente a essa».
E, nella professione, quand’è che scatta l’orgoglio?
«Quando mi rimproverano per qualcosa che gli altri ritengono abbia sbagliato, ma che io sono convinto di aver fatto giusta. Un dribbling, una giocata difficile... Se l’ho provata vuol dire che ci stava. Ce ne sono già troppi di giocatori banali. Però prendi il rimprovero e mandi giù. Anche perché può darsi che faccia fatica ad accettarlo a causa dei miei vent’anni. Quando ne avrò 30 forse vedrò le cose in un’altra maniera».
Lei sulla maglia porta il numero 10 che a Firenze in passato è stato di Antognoni, Baggio, Rui Costa. Quanto ci ha pensato, prima di prendere quel numero?
«Poco, sinceramente. È il più importante, era libero e l’ho preso».
E nessuno ha fiatato?
«No. Certo, sono andato a chiedere ai compagni più anziani (Borja Valero, Gonzalo Rodriguez, Pasqual) se per loro c’erano problemi, se non rischiavo di passare per presuntuoso, e tutti mi hanno risposto: vai tranquillo, le qualità ce le hai, per noi non c’è problema».
Quando il “10” è stato un peso?
«Mai».
Un motivo d’orgoglio?
«Ogni giorno».
È vero che ha l’ossessione di Cristiano Ronaldo?
«Ossessione è una parola grossa... Mi piace più di Messi, questo sì».
Perché?
«Messi è Messi, per carità. È nato così, nessuno gli ha insegnato niente, anzi è lui che insegna a noi. Ronaldo si è fatto col tempo, è un maniaco della perfezione, ogni giorno chiede di più a se stesso: mi ci riconosco».
Alla PlayStation chi mette di fianco e davanti a sé?
«Iniesta vicino, Ibra davanti».
Deve già qualcosa a Paulo Sousa?
«Sì, e non lo dico per ruffianeria. Mi piace come persona, mi ha fatto sentire importante da subito, ha la sua idea di gioco ma in campo non vuole undici soldatini».
Lo scudetto è possibile?
«È presto per dirlo. Però siamo forti e determinati».
Se sul braccio sinistro ha la Hepburn, sul fianco destro ha tatuato il Padre Nostro in latino: perché?
«Perché sono credente, cattolico, prego e se posso vado a Messa. La fede me l’ha trasmessa mamma».
Mamma che fa...
«L’infermiera. Papà è marmista. Sorella più grande tre volte laureata e assistente sociale. Con me lo è tutti i giorni».
Lei è appassionato di moda: il capo che compra più spesso?
«I pantaloni. Ne avrò una cinquantina di paia, forse di più. Non sono fissato con uno stile, vario secondo le occasioni».
Perché Instagram invece di Facebook o Twitter?
«Perché è più facile da gestire».
Possibile che giri ancora in Smart?
«Quella o la Cinquecento. Ma prima o poi lo sfizio del macchinone me lo tolgo».
C’è stata una volta in cui si è morso la lingua o si è pentito di non averlo fatto?
«No, perché, come ho detto, in fondo ho 20 anni e le cose di bocca mi escono anche un po’ così. Sono fiero e orgoglioso di come sono, però magari potevo dire le cose in altro modo».
A chi, all’allenatore?
«Anche. Ma pure a qualche compagno, al direttore sportivo...».
Ride. E quali cose?
«Di non trattarmi come un ragazzino solo perché vengo dal vivaio della Fiorentina. Poi magari non era vero, ma tanti piccoli comportamenti mi davano la sensazione di essere considerato in maniera diversa, e meno importante, rispetto al giovane preso sul mercato e per il quale quindi erano stati spesi dei soldi. È una cosa che succede a tanti: il sospetto che a quello che arriva da fuori sia concesso più tempo, mentre tu, se sbagli le prime partite, torni in Primavera. Ma è stato un disagio iniziale, adesso mi sento alla pari degli altri in tutto e per tutto».
Bernardeschi, ma quando lei è solo davanti allo specchio, si dice mai: sono il più forte di tutti?
«Il più forte no, ma credo in me stesso e mi piace avere questa fiducia. Anche quando dicevano che sarei rimasto un nanetto e invece mi sono alzato fino a 184 centimetri. Credere è la mia forza».