Sportweek, 31 ottobre 2015
Quando l’ex allenatore del Chelsea Avram Grant andò alla ricerca della tomba dei suoi nonni deportati da Stalin
Tre anni fa mi capitò con alcuni colleghi di pranzare nella stessa sala di Roman Abramovich. Successe al ristorante dell’hotel Palace di Kharkiv, Ucraina profonda, durante l’Europeo 2012: eravamo lì per coprire Portogallo-Olanda, mentre il proprietario del Chelsea si godeva il torneo viaggiando di città in città all’inseguimento delle partite più belle. Al suo tavolo, protetto da alcune guardie del corpo discretamente piazzate dietro ai pesanti tendaggi del salone, sedevano alcuni amici, tre ragazzi (figli suoi e degli altri commensali) e Avram Grant, l’allenatore israeliano che Abramovich aveva chiamato al Chelsea come direttore tecnico nel luglio del 2007 per poi affidargli la squadra a settembre, dopo l’esonero di Mourinho. In un certo senso era una presenza sorprendente, perché dopo una stagione di ottimi risultati (a lungo in corsa per la Premier e finalista di una Champions persa solo ai rigori) Grant era stato congedato per fare spazio a Guus Hiddink: roba da coltivare un minimo di rancore, e invece l’israeliano era seduto allo stesso tavolo di Abramovich palesando con lui una grande dimestichezza. Ho ripensato l’altro giorno a quel pranzo dopo aver letto su Blizzard, raffinata rivista inglese di calcio, la toccante storia della ricerca da parte di Grant delle tombe dei suoi nonni raccontata da Igor Rabiner, giornalista del russo Sport-Express. A volte le interviste dipendono da come la prima domanda fa breccia nella sensibilità del protagonista. Rabiner, il primo a ottenere nel 2010 un colloquio esclusivo con Grant dopo il lungo silenzio seguito alla separazione dal Chelsea, senza nulla sapere gli chiese se la sua famiglia avesse mai avuto dei legami con la Russia. Grant accettò di aprirsi raccontando di come i suoi nonni paterni, ebrei polacchi in fuga dai nazisti, fossero stati deportati da Stalin nella regione del Komi, vasta repubblica russa a ovest degli Urali nelle cui terre selvagge erano stati allestiti dei gulag. L’allora governatore del Komi, Vladimir Torlopov, aveva perso i genitori in circostanze analoghe: letta l’intervista s’era allora adoperato di sua iniziativa per cercare nella contabilità archiviata dei campi di lavoro (e prigionia) le tracce dei nonni Grant, trovandole in una località che non esiste più, Rabag. Avvisato della cosa, Avram aveva organizzato una spedizione: in aereo fino al capoluogo del Komi, Syktyvkar; in elicottero fino a Uzhga, il paesino più vicino alla città scomparsa; a piedi lungo 20 chilometri di foresta e tundra per arrivare al cimitero della Rabag fantasma. Nel racconto di Rabiner par di vedere Avram Grant restare in raccoglimento davanti alla fossa in cui riposano i nonni Abram e Ruda, morti di stenti nel 1941 a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra, e poi tornare a Syktyvkar per depositare un mazzo di fiori sulla tomba dei genitori di Roman Abramovich, sepolti lì, dove si erano rifugiati in fuga dalla loro Lituania. Facile, adesso, capire il legame tra i due.